un percorso tra le querce del Salento

di Cosimo Ciccarese


Percorrendo la provinciale Tricase-tricase porto, nel Salento d’Italia ci si può fermare sotto la formidabile Quercia Vallonea (quercus aegilops) meglio conosciuta come l’albero dei “cento cavalieri per respirare un istante il profumo dei suoi settecento anelli di storia prima di giungere e ammirare le vicine scogliere d’oriente.
Una pianta davvero molto bella e incomparabile che deve il suo nome al suo vissuto storico che traspira di partenze crociate, occupazioni, battaglie, bivacchi e ripari comuni.
Il tronco ha un perimetro di oltre quattro metri e le sue cime che si levano oltre i 15 protendono rami e fronde su un triangolo di superficie di oltre 20 mq coprendo completamente il tetto di una antica pajara (trullo).
Questa quercia vallonea è chiamata dagli abitanti del luogo “falamida” (dal grecanico) e fu introdotta nella penisola salentina intorno al secolo X e XI, periodo in cui i monaci Basiliani per sfuggire alle persecuzioni dell’impero ottomano si trasferirono nel Salento (di cui una comunità importante si stabilì lungo il fiume Idro ad Otranto).
In particolare, si narra, infatti, che i leggendari monaci, costretti a fuggire dal sultano di Costantinopoli, dalla Macedonia, attraversarono l’Adriatico, portando nelle stive dei loro velieri sacchi di ghiande dal sapore dolciastro simile alle castagne per affrontare  il duro viaggio.
L’approdo di tali comunità corrispose perciò alla semina e lo sviluppo dei querceti.
Con la germinazione delle ghiande, ricche di tannino, rinvigorì nel salento anche l’arte di conciare le pelli.
Le sostanze tanniche estratte dalle mitiche ghiande a base grossa, le cosidette “gadde  seccate al sole e polverizzate venivano utilizzate dai mastri tintori ”gallaj” per conciare le pelli (ngaddare).
L’arte della concia delle pelli detta anche del “pelacane”, (pare si utilizzasse la pelle del cane...ma non è certo), fu introdotta dai popoli arabi intorno all’anno mille.
Fu in seguito, perfezionata dagli abitanti e fu tipizzata con ingredienti come la “sentina” o morchia delle olive e dai trattamenti a base di essenza di bacche di lentisco (pistacea lentiscus) o di mirto ( mirtus comunis) delle rasenti macchie.
Lungo i profili della scogliera tricasina, sono ancora visibili i “calcinai”, cioè le vasche dove i pelacaj candeggiavano con latte di calce spenta le pelli e le tonificavano con sale marino sfruttando flussi e riflussi delle maree.
La pelle turca o “marocchino” come veniva chiamato il frutto della fiorente attività divenne una materia d’ alto pregio per rilegare libri o ornare monili.
La chiusura del porto e l’avvento delle moderne tecniche di estrazione dei tannini ferirono in seguito, gli artigiani tintori e si affievolì la coltivazione della quercia.
Sulla serra del Mito, affascinante lembo di questa terra fioriscono ancora esemplari di Vallonee da preservare come monumenti e testimoni naturali, ma ancora poco è stato fatto, anche se non sono assenti nei dintorni validi percorsi di ecoturismo. In questa zona ancora si raccolgono le olive o le essenze mediterranee come una volta. A Tricase, i GAL (gruppi d’azione locale) sorta di comunità orientate alla promozione del territorio, pianificano eventi culturali che riguardano artigianato, agricoltura sociale e ambiente.
La quercia dei “cento cavalieri” è oggi il simbolo di una passata civiltà produttiva legata alla sua terra, protesa non solo allo scambio mercantile ma anche incuriosita dalla cultura d’ altri popoli.