Parlare di arte è come mirare a conoscere il flusso di percezioni che anima il mondo, in quel suo lasso di tempo profondamente immenso nell'accostarsi al genere umano. Così, tendendo lo sguardo verso uno spazio/tempo irraggiungibile in termini di età, si cerca l'approccio tracciando una linea talmente sottile da poter esser solo percepita e non vista, tracciando una linea che è percezione ed ascolto di parole e suoni, umori e mondo, una linea che diventa insieme di linee e si fa immagine pittorica, squarcio di luce nella polvere del tempo.
Il linguaggio è comunicazione. Ed è così che forme e colori comunicano, si fanno linguaggio dell'inconscio, del profondo. Ma non parlerò di tecnicismi vari, più che altro di voci. Sono voci che animano l'immagine e del suo messaggio si fanno portatrici.
L'ascolto ha il sapore di un lungo dialogo basato sul silenzio, nell'eternità di un rintocco nel nulla.

Scriveva Emanuel Carnevali, parlando di arte, che «il nostro è il tempo delle categorizzazioni, classificazioni, specializzazioni.

All'inizio, Psiche era un mito Greco leggero, agile e naïf, ma ora noi abbiamo la psicologia, la psicoanalisi, la psichiatria, le scienze psichiche, la psicopatologia, la patopatologia, l'io subliminale, l'in-conscio, il sub-conscio, l'iper-conscio, ecc…

All'inizio c'era un solitario Fidia che faceva statue e difficilmente sapeva, o non sapeva del tutto, il perché e il percome. Ora ogni irriverente bastardo in circolazione che solleva il posteriore per lasciare una profanazione di inchiostro su un foglio pulito parla di tecnica.»

Per questo, il discorso tecnico, nell'ambito della pittura di Mauro Curlante, diventa off limits; di tecnica se ne potrebbe parlare, ma non ci sarebbe spazio per le voci di una delle pitture, e forse la pittura, più deliranti/e in questo giovane Salento.
Mauro Culrante, 21 anni ed un rapporto "verbimmagine" che dissimula ogni discorso riguardo a tecnicismi, lasciando spazio al fluire delle immagini che vengon lette dallo sguardo come fossero parole, linguaggio "unico" di un sentire di cui, come scriveva Carnevali, non si sa "il perché e il percome". Ma c'è. Il passeggero nella mia mente osserva, silenzioso, meraviglia e follia. Gli occhi, sgomenti, riconciliano col sereno. La naturale posizione che si è portati ad assumere davanti all'arte di Mauro Curlante è propria dello stupore, di quell'inspiegabile sortilegio che nel mondo di oggi è sempre più raro.

E scriveva ancora Carnevali - «L'artista non è uno specialista, l'artista non è un lavoratore esperto, un artigiano, un tecnico, egli non appartiene a nessun luogo perché appartiene a tutti i luoghi, non sa niente perché sa tutto; non è un giudice, non è uno studente, non è un re, non è un capitano, non è un dio, non è un lavoratore, non è un amante – perché conosce meglio, perché è un UOMO - un giudice, studente, re, capitano, dio, lavoratore, amante – queste sono parole che esprimono un concetto più definito, stretto e "più specifico" rispetto al concetto di UOMO.»

Ciò che è proprio della pittura dell'artista è un profondo senso, allo stesso tempo, di partecipazione e smarrimento; smarrimento davanti ad un luogo che non è "nessun luogo" perché "è tutti i luoghi"; è la voce di un percepire che soltanto l'artista stesso può avere la forza e la capacità di conoscere, che noi captiamo qua e là come fosse composto da una serie di onde di una qualche trasmissione nell'etere, ma che più di tutti è la pittura stessa ad avere la piena consapevolezza di sé, a farsi linguaggio di sé stessa. Oltre tutti i "ma", l'impossibilità di guardare così lontano, di giungere, a ritroso, alla genesi dell'immagine, espressione e concetto del sentire.
Esplicazione e sentire, un percorso in cui divenire e scorrere a ritroso conoscono lo stesso tempo e di esso si nutrono, in costante simbiosi nelle vicende dei colori, quando un tratto di pennello non è più un semplice tratto, ma nasconde in sé una portata semantico-emotiva che agisce come spazio atto al retroscena delle nostre personalità, ci pone come indifesi ascoltatori delle più antiche vibrazioni che nell'uomo si compongono, al di là di semplici distanze, in un "continuo" di luoghi e tempi.

Francesco Aprile