C'è ironia. C'è durezza. L'ironia a volte ha la forza di farsi trasposizione del reale senso della vita, delle sue vicissitudini. Così, accade che l'esistenza di un davanzale - esposto alle intemperie - sia ritmo delle giornate dell'uomo, dell'ostinarsi in una direzione - che De Andrè chiamerebbe "Ostinata e contraria" - in un linguaggio che è autentico e reale, che ha il sapore della modernità, il tempo di una canzone. Perché Stefano Zuccalà è anche autore di canzoni. E se la poesia è sempre stata ritmo, in questo caso, sa giocare con le note. In maniera autentica. Disinvolta. Il passo breve di un respiro, la decisione della pagina, la fermezza dell'inchiostro.
Scorrere le piaghe della vita, delle giornate troppo corte, troppo lunghe, sempre troppo. Qualcosa. E poi. Aderire al linguaggio che forma la cultura, la società, è un aderire alle problematiche che ci circondano. Un sentire profondo. A tratti acuto. Del verbo come matrice dello scandaglio umano.
Ripercorrere se stessi lungo anni e ferite che ci preparano al mondo ed alle successive passioni. Delusioni. Ovazioni. Esaltazioni. E ancora. Delusioni. E poi ferite. Sempre più lievi. Sempre più forti - a mano a mano che il tempo retrocede allo stadio iniziale - in un tonfo che è dolore, che lega, ci lega, trasuda malinconia. Rabbia. Rabbia sepolta. Rabbia appassita. La densità del verso come ira che si muove nell'aria. Ha la forza di un fendente. Un colpo ben portato, netto. Il tempo secco di un continuo ferire.

«Appena sveglio ho trovato
quella macchia di sangue.
Mi ha raccontato di un nome
incrostato nell’angolo del corridoio
perché ogni tragitto
si risolve in un ricordo senza passi.»

E ancora, scrive Stefano Zuccalà:

«Hai stretto le dita.
Hai tentato una strada.
Hai fondato la notte.
Adesso non resta che la cenere
e il pugno ammainato nel cassetto.
Il desiderio di non capire
niente che non sia
un ultimo urlo
con le braccia cacciate
nella sacca vuota delle scuse.»


Un continuo incedere e poi retrocedere. Tornare ed ammainare i ricordi, la vita, e poi - come d'incanto. La forza di ricominciare a soffiare. Il gesto e l'ira. La necessità d'aggredire l'istante per non esserne risucchiato.
Un ricordo come spazio del tempo infranto. Memoria del sé, del noi, che ha la cadenza di un ricostruirsi da sé in forma di mosaico, l'essenziale di una realtà minima che a tratti ci sfugge. Il suono minimal delle parole, l'incedere terapeutico delle note in un fluire di colpi, come cura del tempo riconquistato. Riutilizzato. Esserci per Esserci. Constatazione - ferma e reale - di noi. Di noi come pronome personale connotato di elegante rabbia a trascendere l'inattivismo reale dello spazio sociale. Poesia che è tempo per l'Essere di Essere.


Francesco Aprile