Passando per Capestrano
(da il Palindromo del Tempo)


di Francesco Pasca




M’avviai di buon’ora per Capestrano e, di lì a poco, ne sarei stato avvolto. Giunsi così presso la chiesa di San Pietro ad Oratorium, nel territorio del guerriero etrusco, nella valle Tritana, a sinistra del fiume Tirino. M’apprestavo alla visione di un Luogo magico, carico di aura antica ed altrettanto attuale. Il più strano dei palindromi era qui collocato in una maniera inusuale, capovolto e ben visibile sulla facciata, ad altezza d'uomo, con caratteri ben incisi e recitanti: ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR. La disposizione letteraria delle venticinque lettere si manifestava differente rispetto ad altri Sator presenti sul territorio, nei quali era possibile trovare, invece: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, l’apparente uguale.
Al mio arrivo la pietra così era disposta, pronta ad attendermi. Non nella consueta disposizione regolare quadrata, ma su di un concio lapideo di forma rettangolare, per di più capovolta.
Restava evidente una marcata sottolineatura dei primi due righi recitanti: ROTAS e OPERA.
Personalmente, ritenevo che nulla potesse essere stato fatto per caso e che la prima forma letteraria, quella originaria, recasse proprio “ROTAS OPERA…”. Laicamente mi predisponevo a tradurre quello strano rincorrersi in: “la terra gira tenendo unito l’operato dell’uomo”.
Anche la presenza di altri manufatti, apparentemente disposti in maniera casuale sulla facciata, dovevano avere un significato o, quanto meno, erano stati messi lì a raccontarci qualcosa.
Aggirata la fabbrica mi trovai di fronte la sobria facciata. Questa fabbrica, semplice e tripartita, dalla sagoma dei due tetti laterali e da quello centrale a capanna, manifestava  l'evidente ascriversi al Paleocristiano prima e al Romanico poi. Il tempo lasciava supporre quanto avrei potuto trovare al suo interno. Infatti, lo spazio attivo di quel volume era una navata centrale e due laterali. Al centro della facciata, in basso, un portale sormontato da una spessa architrave il cui sistema trilitico segnava le relative imposte anch'esse decorate ed a sua volta sormontate da un'ampia cornice circolare a due livelli con il medesimo disegno decorativo. L’imoscapo era di altezza esattamente il doppio del successivo e ne faceva coronamento per le mie successive fantasie, ipotesi.
Quell'arco si presentava a tutto sesto con più in alto una finestra di forma quadrangolare che ne sostituiva il rosone. Evidenti le date segnate dallo scalpellino sulla corda dell’arco di questo Oratorium.
Da un’attenta lettura si evinceva: fondato verso la fine del 756 d. C. dal re Desiderio, donando all'abate di allora, Attone (molti beni e possedimenti furono donati perché lo edificasse).
È oggi un rifacimento del 1100 come dall'iscrizione sul portale.
Nel VIII secolo pare sia stato uno dei principali monasteri d'Abruzzo così come pare godesse anche di particolari privilegi, riconfermati successivamente da Carlo Magno nel 775 e da re Pipino, Ludovico, Lotario I e II.
La ricognizione della facciata fu meticolosa, ne rilevai le dimensioni ma soprattutto le numerose formelle lapidee incastonate, come già detto, apparentemente a caso, sul perimetro delle sue facciate. Naturalmente, suscitò maggiore interesse quella del SATOR.
Ero incoraggiato dalla magia che mi pervadeva a non trascurare nessun segno, scalfittura o decoro che avrei potuto rilevare sul perimetro della fabbrica. Dopo l'attenta ricognizione visiva e fotografica m’addentrai meglio al suo interno.
Notavo la stupenda armonia dei suoi spazi. Avvicendavano la curiosità attraverso le robuste arcate dei loro piedritti, robusti piedi di pietra quadrangolari.
La pavimentazione anch’essa sobria era costruita con un lastricato ben disposto e raggiungeva, con ordine, il presbiterio. Se ne divideva la superficie innalzandosi con un breve gradino. A circa i due terzi dell’intera pavimentazione con un altro piccolo balzo s’andava a spezzarsi e a proseguire sino all'abside. Un ciborio gotico, un altare, una leggerezza di ricamo ne ravvisava, per la sua forma cubica, la forma di un'ara pagana alleggerita dal soffio.
Quell’ordinata pavimentazione, sebbene priva di un qualsiasi riferimento iconico o tassello cromatico, faceva ugualmente correre la fantasia. Il suo ordine diventava il mio codice aureo, chiave assoluta del Tempo. Pianta e copertura, così come già detto, più che rispondente alla tipologia romanica, per la sua forma basilicale suggeriva un'appartenenza ad un pre-romanico per lo più costituito da fasi costruttive ibride in cui emergevano evidenti le logiche evoluzioni dei tempi piuttosto che le volontà certe dei suoi costruttori o unico costruttore. Infatti, i decori bizantini presenti in porzioni di intonaco ne confermavano provenienza ed appartenenza.
Ispezionai centimetro su centimetro il vasto ambiente, il più banale dei segni divenne il reperto più importante; sarebbe stata poi la più attenta visione fotografica a darmi la certezza di quanto potevano essere state le mie supposizioni. Riguadagnai l'esterno e, appena fuori, mi ritrovai ancora l'enigmatica "ruota magica", così era conosciuta in quel territorio.
Dall’ulteriore ed attento esame di quel concio lapideo, dal materiale di provenienza, m’appariva appartenente alla stessa cava degli altri. La sua dimensione seguiva la regolare sequenza dell’opus adoperato; ne derivava, pertanto, che era di uno stesso corpo di fabbrica o quantomeno di uno stesso manufatto già preesistente o riutilizzato. La sua incisione, a questo punto, non poteva che appartenergli. La perplessità era il perché disposto capovolto quasi a volergli far recitare: “Sator Arepo…” o ad assecondarne quel ROTAS OPERA.
La curiosità era ora destata, oltre all'insolita posizione capovolta, anche per la diversa A unica della seconda riga e probabile A dell'ultima. Simili, quest'ultime, alla AVM da me ritrovata nella cattedrale di Otranto ed in altre località.
Sebbene consapevole dell’appartenenza ad una rappresentazione dell’alfabeto sacro( ), ero altrettanto convinto che un rimando simbolico era alla base del suo utilizzo.
Strana era la sua presenza e collocazione, poi successivamente chiarita, come ultima lettera del secondo rigo.
Tutto questo, con quel ROTAS OPERA, dava l'immediato rimando, come già detto, al suo probabile significato de "LA TERRA GIRA".
Se l’appartenenza di quel concio fosse pre-cristiana, l’immaginare la consapevolezza di una terra sferica e rotante, nonché ricondurla, attraverso il suo esprimersi come palindromo, dava alla mia supposizione di misuratore del tempo un tutto che diventava certezza.
Non restava, ancora una volta, che accertarmene.
Ora, altri conci lapidei attiravano la mia attenzione.
Sulla facciata apparivano decorazioni, certamente riutilizzate, ma solo apparentemente di solo significato decorativo.
Ero ormai sicuro che a queste dovessero seguire particolari rimandi.
L’utilizzo dei nodi salomonici, ripresi poi in altrettanti luoghi all’interno dell’Oratorium, dovevano avere altrettanti significati.
Un’altra pietra, al pari del ROTAS, era inserita rovesciata. Tutti questi elementi non potevano che non lasciarmi turbato.
“ORA DIAL PROCVLAE DISP EX VIS D”. Queste le uniche lettere leggibili di un contesto molto più ampio ed a me non pervenuto.
Ancora la domanda: quali i motivi?

Sostando sul mio ROTAS

Su Sassi
Sottili di-segni
Divisi da Sassi

Segno su segni
di Sassi e di-segni
    Divisi da Segni

Unici Segni
Mai sovrapposti
Disegni di Segni

Sommati da Segni
Su sassi di Sogni
Divisi da Sassi

Unici Sogni di Segni
    Identici Segni
Su Sassi e su Sogni

I Tuoi Sassi
ai suoi  Sogni di-Segni
    Silenzio ai Tuoi sogni

La presenza inquietante era la celtica lì, affiancata al concio, con rappresentata una probabile sfinge alata. Non poteva essere stata messa lì per caso.
Quella teoria di archi, ritagliati nella loro essenzialità, con quella fitta presenza di rosette regolari e non, cos’erano?
Perché le stesse rosette presenti e sparse qua e là, persino sulla parete di fondo, dell’abside esterna?
Forse indicavano la rappresentazione di un cielo stellato al di là delle arcate?
Tutto era rivolto alla ricerca di un qualsiasi riscontro oggettivo ad una mappa celeste. Quale?
L’impressione era che, quei quattro archi, segnassero quantomeno le stagioni e che, ad ognuna di essi, fosse stata assegnato una precisa mappa celeste.
Quell’ornamentazione a grappolo con racemi rievocanti strani frutti, cos’erano? Potevano rimandare ad un preciso periodo dell’anno?
Quello strano animale con la coda ad anello, molto simile alla rappresentazione dell’undicesimo simbolo della cosmogenesi di Otranto, da quale contesto era stato estrapolato?
Quell’essere, così isolato, così ringhioso, al quale per istinto ne avevo riconosciuto un’appartenenza anche all’immaginario di Pantaleone, a qualunque contesto fosse appartenuto, ne faceva sicuramente un riferimento, nel migliore dei casi, con attribuzioni particolari.
Di esso e in quel contesto, solo un segno e non un simbolo?
Queste le mie domande.
E poi ancora la sorprendente presenza di questa insolita scritta.  La perplessità non per quanto veniva riportato, ma per la certezza che dava.
Mi accingevo a considerare che non di un reperto decontestualizzato si trattasse, ma di un approccio postumo, a posizione già assunta, diretto e manifestato con i conci della facciata. Di fatto ne era l’attribuzione all’immagine sullo stipite destro dell’arco.
Tutto ciò mi confortava e confondeva. L’intuizione precedente cominciava a scorrere, a girare, ma anche a fermarsi, ad attendere.
Alcuni di quei segni, lasciati qua e là sulle facciate dell’Oratorium, potevano essere non dei manufatti riportati, ma delle vere e proprie impronte lasciate dallo scalpellino di turno, per avvedute ragioni.
Quel fare, di certo, non poteva restare con i soli perché, ma ricondotto altrove, in quell’immaginario ormai creatosi nella mia mente e perseguito con la stessa tenacia della maestranza di quel comporre e poi collocatesi tra quei manufatti.
La mia testardaggine la intravedevo, diveniva la stessa caparbia dovizia di quei particolari. Portavo massima attenzione a ciò che era stato eseguito, per poi trasferire, con tutta la sua carica emotiva, all’immaginario di appartenenza.
Giungevo con la fantasia all’animo di quel fedele visitatore del luogo e, la sua  magia, si moltiplicava. 
Ecco allora che riordinavo i miei appunti e, mentalmente …

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(1)Alfabeto sacro di Adamo AUM (Gennaro d’Amato) F.lli Melita Editori, Genova
 
Le immagini: "_Sator Magnetico" e "_Risonanza poetica" sono di Francesco Aprile (http://www.flickr.com/photos/43641903@N07/), per meglio corredare lo scorrere del tempo, la poesia della mente.