Coloro che in estate erano dei marinai, durante l’inverno diventavano dei trappetari. Era questo il destino di chi lavorava nei numerosi frantoi ipogei presenti in Terra d'Otranto. Forse rifugio oppure una condanna, il frantoio era definito un girone infernale ma pur sempre la principale fonte di guadagno per il Salento. Se si considera, infatti, che 25 milioni di alberi di ulivo costituiscono oggi il polmone della nostra terra, grazie alla coltivazione introdotta nel 1200, si è riusciti a vantare insieme al regno di Napoli e alla terra di Bari, il primato della produzione olearia. Cardine di tale ricchezza finanziaria era Gallipoli, sede di cinquecento frantoi, e dal suo porto si esportavano quintali di oro liquido verso il resto dell’Europa, in particolare a Marsiglia, noto centro di produzione del sapone, non a caso le navi si chiamavano marsigliane. L'olio era sfruttato non solo per un uso alimentare o per fabbricare il sapone ma anche come combustibile per l'illuminazione. Tuttora si trovano trappeti, molti di questi visitabili e in funzione come quello di Vernole così come a Sternatia, Martignano e Minervino. Ma al di là di alcune felici realtà, i trappeti sono reperti spesso abbandonati al logorio del tempo anzi molti sono stati persino interrati, scelta giustificata bonariamente da un’antica credenza popolare che immaginava i trappeti, dimora di un folletto denominato lo scazzamurieddu. Tuttavia il loro recupero è essenziale per conoscere la vita dei braccianti che da Ottobre fino ad Aprile lavoravano ininterrottamente seguendo gli ordini del nocchiere riempivano la stiva dove si iniziava a macinare le olive. Gli uomini nonostante fossero mal pagati lavoravano per diciotto ore senza sosta, non potevano uscire se non in occasione della festa dell’Immacolata, l’8 dicembre, sporchi ed unti vivevano in semi isolamento e in un quadro igienico pessimo dato che i frantoi ospitavano anche gli asini che bendati giravano intorno al cerchio di pietra. I frantoi avevano un’altezza che variava da 1,70 a 3 m ed erano privi di luce diretta, l'unica fonte proveniva da due piccoli fori praticati al centro della volta del vano principale. L’ingresso era quasi sempre rivolto verso sud per fare in modo che i venti di tramontana non condizionassero la temperatura ecco perché i frantoi erano ipogei o semi ipogei: per sfruttare la costanza termica proteggendo in tal modo il prodotto dagli sbalzi di temperatura. L'olio, infatti, diventa solido intorno ai 6°C quindi l'ambiente dove avveniva la spremitura doveva necessariamente essere umido. Le peculiarità ambientali hanno senza dubbio favorito questo tipo di trattamento ma le maestranze locali hanno saputo ricavare gli spazi dalla roccia così come le macine e la vasche dalla pietra e ancora i torchi dal legno, i fisculi dalla fibra vegetale, la quartara dalla terracotta, lu stampieddu dal metallo. Tuttavia il loro ingegno non ha portato particolari benefici economici, infatti, come scrisse Raffaele Congedo l'olio non ha mai arricchito chi lo produce, si tratta di un malessere che era diffuso anche fra le raccoglitrici di olive. Tuttavia  furono proprio le donne a rivendicare i propri diritti reclamandoli in uno sciopero generale a Maglie in una manifestazione dove persino i soldati fraternizzarono con le scioperanti riconoscendo la ragione nelle loro richieste. Dell’olio se ne sono fatti tutti gli usi anche poetici letterari: Rina Durante lo definì  l’oro del Salento, Ungaretti ne “La terra promessa” ne fa il simbolo del sonno, Montale ne il “Diario” lo descrive come elemento per curare l'impasto di catrame e Quasimodo in “Acque e terre” lo impiega per esaltare la bellezza del volto esotico di una fanciulla infine per la religione cristiana è l’elemento più ricco di virtù crismali.

di Paola Bisconti