Pratiche dell’orrore. La libertà violentata nella vicenda Leopizzi
 
Francesco Aprile
2012-09-17
 
estratto da un intervento pubblicato sul numero di ottobre 2012 della rivista "Diversalità Poetiche" 
 
1.
 
La storia di Renato Leopizzi è quella di un antifascista salentino che fu destinato al manicomio di Lecce da quel regime che non riusciva a piegare la sua integrità, la sua coerenza, lo spirito, profondo, che guardava lontano verso la libertà. Fu rinchiuso in manicomio e dichiarato morto pochi anni dopo. Si scoprì, in realtà, che Leopizzi era ancora vivo quando un certificato ne accertava la morte, che sulla sua morte si era mentito, che la sua vita era stata destinata al manicomio anche dopo la caduta del regime che lui aveva combattuto. Morì molti anni dopo, sempre in manicomio. Attorno a quegli anni serpeggia ancora il mistero, l’indifferenza, la dimenticanza. 
 
2.
 
Nell’ambito della rivista Diversalità Poetiche, diretta da Francesco Pasca, e fondata dallo stesso con Maurizio Nocera e Francesco Carrozzo, ho proposto questo recupero della figura di Renato Leopizzi letta sullo sfondo di un confronto dialettico, poetico, letterario, artistico, di riflessione,  attorno ai sistemi repressivi ponendo il dialogo e l’ascolto, incessanti, in uno spaccato argomentativo in cui in maniera ampia si affrontano tematiche legate a sistemi repressivi, spesso di matrice culturale, il tutto legato al recupero della figura di Leopizzi che da sfondo, filo conduttore, tema centrale e altro ancora, e conferisce forza e respiro al prodotto finale.
 
3.
 
Nel 1987 l’editore Aldo D’Antico attuava un primo recupero dell’antifascista parabitano, donando la sua storia attraverso la pubblicazione di un libretto intitolato “Un uomo per la libertà: Renato Leopizzi”. Qui, D’Antico offre uno spaccato dettagliato della vicenda umana di Leopizzi che, nel 2007, sempre per le Edizioni Il Laboratorio, riprenderà con la pubblicazione di un pieghevole riportante lo stesso titolo del libretto del 1987, ma con all’interno una ripresa vigorosa di questa vicenda, la cui memoria è rafforzata dalla ripresa di una lettera di Carlo A. Ciampi, nel 2005 su La Gazzetta del Mezzogiorno quand’era ancora Presidente della Repubblica – inviata a D’Antico per l’impegno e la resistenza dimostrata nel recupero di questa figura di autentico uomo per la libertà; a far da cornice a ciò, le parole di D’Antico che si auspicava, e continua a farlo, un adeguato riconoscimento nazionale per chi come Leopizzi ha saputo affrontare tali regimi al punto da rifiutarsi di firmare la domanda di grazia, inoltrata dalla famiglia nel 1929, affermando che «sarò sempre fiero della mia indipendenza. A qualunque costo».
 
4.
 
Renato Leopizzi veniva definitivamente rinchiuso in manicomio nel 1933, all’età di 28 anni. Finirà i suoi giorni nell’abbandono totale, dopo aver donato la sua vita all’Altro e dall’altro ignorato, in manicomio nel dicembre del 1974.
 
5.
 
Storicamente, sistemi sociali repressivi trovano la loro collocazione in strutturazioni di ambito culturale più che esser legate ad una effettiva realtà e conseguente bisogno. Da un diritto al riconoscimento legato al potere, alla forza, al dominio, all’onore, dunque riservato ai pochi, alla dialettica servo-padrone di hegeliana memoria e tale riconoscimento quasi nullo perché riscontrabile in un percorso di effettivo riconoscimento attribuibile in senso unico dal servo, pari a zero per la società, verso il padrone, a pratiche di emarginazione, repressione sociale innestate sull’aspetto religioso: matti, folli, considerati come invaghiti dei demoni, al punto da dover essere esorcizzati, repressi. La grande storia della rinuncia, di quel rinunciare a ciò che più di tutto è di natura umana, soppressione del desiderio nello scaturire dei grandi monoteismi. L’annullamento della pluralità. Il dominio rinchiuso nel fortino della ragione illuminista, la normalizzazione, il Panopticon di Bentham, il privilegio e la repressione fondati sulla razza, il diritto della stirpe divina. La normalizzazione per il controllo sociale.
 
6.
 
«Ho incontrato il carcere un giorno di settembre del 1974. Nel mio immaginario, attraversato da attese rivoluzionarie, esso non era inatteso. Le letture degli anni precedenti lo avevano a poco a poco introdotto nelle mie fantasie come un luogo romantico, nobilitato da tanti uomini e donne che in epoche diverse e diversi paesi avevano lottato contro poteri ritenuti arbitrari. Cosa fosse in realtà questa forma d'istituzione totale non lo sapevo né alcuno fino a quel giorno me ne aveva parlato avendone fatto esperienza diretta» (Curcio, R., Stati modificati della e nella reclusione).
 
Il lavoro di Renato Curcio per quanto concerne stati modificati della e nella reclusione ci pone nell’ottica di modificazioni fondanti volte ad instaurarsi nella sfera intima dell’individuo sottoposto a pratiche di reclusione coercitive, totalitarie. L’individuo è attraversato da spaesamento, vertigini, che via via ne snaturano la condizione psichica, evolvendosi in quel punto in cui «la soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio» (Ivi). Transe da ipostimolazione, inoltre, dovute alla «drastica riduzione degli stimoli» (Ivi). L’analisi qui presa in questione mette in evidenza come lunghi periodi di internamento possano persino distruggere la persona, attraverso il rivolgimento in sé messo in atto nella chiusura in quella prigione della carne che è data dal proprio corpo come punto unico, ormai, dell’esistenza violata. È la violazione dell’esistere, del soggetto che evolve in pratiche che muovono dall’esperienza vissuta al proprio interno. È la cancellazione di tale esperienza. La deprivazione umana dalla quale se si rinasce lo si rende possibile soltanto attraverso il «potenziamento di qualche stato di coscienza dissociato, atto a risignificare la punteggiatura della propria identità» (Ivi).
 
7.
 
Difficile poter parlare della vicenda di Leopizzi, del lungo e fatale internamento in un contesto che vede la nascita ufficiale di quello che verrà in un primo momento denominato come Manicomio Provinciale di Terra d’Otranto nel 1901, ma che già dalla fine del 1800 iniziava ad agitarsi sulla provincia di Lecce in diverse forme e dinamiche. Paola Pagano ed Ernesto de Pascalis ricostruiscono la storia dell’Opis di Lecce e in questo scritto troviamo che «emerge in modo evidente lo scopo di controllo, vigilanza e, all’occorrenza coercizione, perseguiti dalla struttura». Nel 1931 fu ufficialmente istituito l’OPIS, due anni prima della definitiva reclusione di Leopizzi. Scrivono, ancora, che nel 1939 c’erano «140 pazienti trattati con elettroshock» e che nello stesso anno il nuovo direttore, De Giacomo, propose una «drastica riduzione dell’uso di sistemi coercitivi: i pazienti non dovevano più essere rinchiusi in cella di isolamento, fu abolita la camicia di forza» e «per quanto riguarda le altre forme di cura [...] furono sperimentate nuove tecniche più invasive, come la leucotomia, che consisteva nella recisione di fasci di fibre cerebrali per inibire l’agitazione motoria di alcuni pazienti, che non diedero però buoni risultati, ma offrirono l’occasione di studiare più da vicino i meccanismi cerebrali» a mo’ di cavie da laboratorio sempre nell’annullamento del corpo husserliano come punto nullo dal quale procedere al riconoscimento dell’altro come soggetto provante esperienza vissuta. Attraverso la ricostruzione di Pagano e De Pascalis e alle interviste poste a 3 persone che svolgevano il proprio lavoro all’interno dell’OPIS emerge come l’importante era «esercitare un controllo sulle persone perché ritenute pericolose», ma i racconti dei tre intervistati mostrano pagine di umanità instauratesi fra i pazienti in “cura”, come ad esempio uno di loro che rubava il pane per poi darlo ai suoi «compagni costretti a letto dalla terapia» o la storia di un paziente che, su responsabilità di uno dei tre intervistati, fu portato a Brindisi a vedere e conoscere la figlia di 4 anni che non aveva mai visto. La descrizione della reazione dei familiari è più inquietante, manifestando come espressioni di “malattia” risiedano nel contesto sociale-culturale e da questo agiscano sugli individui – fa ancora testo la lezione “d’amore” di Laing – questi, infatti, non erano mai andati a trovare il “recluso” ed avevano paura ad averlo, anche per pochissimo tempo, in casa. L’intervistato procede il racconto mostrando come dopo anni di internamento l’uomo sia corso verso la figlia di 4 anni, abbracciandola per qualche minuto, ignorando gli altri parenti e concludendo, poi, con «Ora possiamo andare. Sono l’uomo più felice del mondo. Volevo conoscere mia figlia e degli altri non mi importa nulla». In questo contesto ha avuto luogo il martirio, la libertà violentata di Renato Leopizzi. La vita occultata.