Coniato con nome di un territorio, usato per individuare univocamente tradizione, usi e costumi, il termine salentinità da tempo vuole essere ascritto anche al mondo dell’architettura per indicare elementi distintivi della nostra terra.
Una volta un mio collega architetto non conterraneo mi chiese di spiegargli cosa fosse per me la salentinità e come l’avrei voluta esprimere nei miei progetti.

Secondo voi esiste un elemento che sia più salentino di un altro?
La risposta ad una simile domanda non è univoca e per questo ogni risposta avrei dato sarebbe stata comunque fuorviante: il termine salentinità ha la velleità di indicare un luogo con il suo bagaglio di tradizioni e prediligere con una sola parola un aspetto piuttosto che un altro è sicuramente riduttivo, così come indicare un luogo, un’immagine o un edificio piuttosto che un altro è altrettanto limitativo.
Ora immaginate pure cosa significhi spiegare una terra a chi non è del luogo con un solo elemento, un solo edificio è come indovinare cosa sta pensando l’altro, azzeccare con un sol termine l’immagine impressa nella memoria di chi visita in un tempo indefinito, un luogo imprecisato.
Architetti di fama internazionale coinvolti in ristrutturazioni, concorsi e costruzioni hanno da sempre voluto proporre sul nostro territorio differenti strutture che richiamavano in chiave moderna icone di architettoniche locali e probabilmente per la maggior parte di questi il nostro territorio è esprimibile dalle nostre masserie, dal nostro barocco e questo non è niente di più vero.
Per opinione personale, l’architettura salentina ha come elemento primario, cellula di un intero organismo, la pietra leccese: le nostre volte a stelle, le nostre masserie, i pergolati, i nostri centri storici, le nostre chiese ha come elemento madre il concio di pietra leccese.
Il colore caratteristico nelle vie dei nostri paesi è quello tipico della nostra pietra locale erosa e patinata dal tempo. Ricordo che quando alla fine degli anni ‘90 la Basilica di Santa Croce fu interessata dal restauro della facciata, indispensabile a ricostituire gli elementi decorativi ed a eliminare gli strati protettivi oramai ammalorati dei precedenti interventi, il risultato fu messo in discussione perché era stato risaltato il colore “giallo patata” che sembrava mai essere appartenuto alla facciata dello Zimbalo.
Secondo me, siamo così psicologicamente ed empaticamente legati al colore della pietra leccese che nelle ristrutturazioni di ambienti del nostro centro storico, si è soliti voler vedere la pietra a nudo, soprattutto se si parla di volte a stella.
Eppure le volte salentine, soprattutto in un ambiente domestico, non sono mai prive d’intonaco o meglio di una scialbatura, questo per limitare il naturale sfogliarsi tipico della nostra pietra.
Le maestranze locali sono solite affermare che non tutte le volte sono idonee alla stonacatura.
La bellezza di una volta a nudo è sicuramente direttamente proporzionale con l’integrità della struttura e la presenza o giustapposizione di materiale eterogeneo, a cui va aggiunta una sapiente stilatura dei giunti fra i conci.
La salentinità anche nell’architettura è qualcosa di effimero, più vicino al nostro immaginario, potremmo per di più dire che questo termine voglia inglobare visioni, esperienze tattili, predilezioni materiche del tutto personali in cui ognuno di noi si sente emotivamente coinvolto.

di Alessandra Paresce