“Terra ca vai Pampasciulu ca truei”(prov. Salentino)

Sono pochi gli argomenti che destano tanta curiosità quanto quella che si evolve intorno ad un tavolo che riscopre cibi dimenticati, essenze e caratteri della dieta mediterranea, ricette e biodiversità.
In terra d’Otranto mondo ricco di sapori e tradizioni, si discute molto sulla denominazione geografica dei suoi prodotti spontanei a uso alimentare e ci si chiede spesso come ottimizzare al meglio la loro offerta ai più accesi amanti del cibo.
Quello che appassiona più di ogni altra essenza spontanea è il fantomatico Cipollaccio col fiocco, alias Muscari Comosus per la botanica, Giacinto dal pennacchio per le aree settentrionali, Pampasciune o Pampasciulu per i meridionali salentini.
Eppure il cipollaccio, ha tanti nomi, uno per ogni regione: Vampasciulo in Campania, Cevoddhine in Lucania, Cipuddhrazza in Sicilia, Ariteddu in Sardegna.
Il Cipollaccio cambia anche nell’aristocratico nome di Leopoldia Comosa, in omaggio al Granduca di Toscana, Leopoldo II, lungimirante protettore delle scienze naturali e quindi anche custode delle più antiche varietà di rango.
Il rigore scientifico di Muscari, invece, è il titolo che caratterizza una scheda botanica che approda nell’immensa famiglia delle Liliacee; pare che derivassero, dal latino muscarium, per via della sua infiorescenza, simile al ventaglio in uso tra i romani per allontanare le mosche.
La forma coltivata in Puglia e in Calabria, si riferisce invece al Muscari Monstruosum, bulbillo di profilo regolare e paffuto meno sapido del primo ma da non sottovalutare assolutamente.
Il tono cordiale e incerto di come la massaia chiede al fruttivendolo un chilo di “ lampascioni” selvatici, fa sorridere il suo cercatore che armato di cesto e apposita zappetta (sarchiuddrha) può attingerne a bizzeffe dal suo campo invocandoli e riconoscendoli d’acchito. Mi riferiscono che negli angoli più brulli e incontaminati di Mediterraneo, con una buona dose di solerzia e pazienza, se ne possono raccogliere ancora, ma i posti sono secretati per eludere le solite rozze antropizzazioni e preservare il fascino della raccolta.
 Il nostro cipollotto, trasposto in latino, diviene Lampadionis (a forma di lampada), è stato considerato dagli antichi romani e bizantini un bulbo di pregio e oggi è argomentato da importanti studi agronomici.
Il “pampasciulu salentino”, innominato per eccellenza, chimera inafferrabile se non si sterra con cura, essenza che staglia di netto le stagioni, decreta l’inizio della primavera quando il suo fiore spunta tra le macchie ai primi di marzo e s’inoltra fino a giugno. L’infiorescenza viola o blu, col suo fiocco bizzarro, sterile, composto di una sequela di piccoli frutti capsulati, indica con esattezza l’incrocio delle coordinate dove solcare per estrarlo fuori nel miglior modo possibile, integro, con tutto il suo rossore, con un seguito di piccole radichette e un abbozzo di gemma che risaltano la loro freschezza.
È proprio il caso di dire, un bene“ricercato” tra le macchie pugliesi, parente di aglio e cipolla che contiene costituenti carichi zolfo, pectine, flavoni, in grado di ridurre grassi e colesterolo con proprietà lassative, diuretiche e afrodisiache. Virtù che pare fossero già conosciute ai tempi dell’imperatore Diocleziano, che importava dall’Africa settentrionale, quei lampascioni selezionati degni di un Re, per l’imponenza della loro taglia, per l’intensità del loro colore, per il contenuto d’amaro, quelli che ancora oggi gli spagnoli chiamano semplicemente come “erbetta degli amori”.
L’amaro dei Muscari comosus, che è dato dalla presenza in tutte le parti della sua pianta di un succo mucillaginoso, di acido comosico, saponine derivanti dall’unione di residui di zuccheri, presenti anche in natura in altre piante. In ogni modo l’acre bulbo cambia sapore ed è reso più assimilabile se lasciato in ammollo per qualche ora in acqua tiepida, dopo averlo accuratamente affrancato dal colletto delle radici e dalle tuniche che lo ricoprono. Nel Salento si usa lessarli condirli con olio extravergine d’oliva e un po’ di pecorino piccante o pangrattato e succo di pomodoro, oppure in agrodolce pressati dolcemente sottolio o sottoaceto come antipasto per frise o insalate a garantire un ennesimo esempio di diversità alimentare.

di Mimmo Ciccarese