Sono almeno 600 i chicchi stivati tra le saccocce polpose di una melagrana, un numero di semi elevatissimo per un frutto molto apprezzato. Una generosità, quella del melograno, come quella degli antichi egizi e dei popoli del Caucaso che ne diffusero la coltivazione nel resto del Mediterraneo; gli antichi romani ai tempi della conquista dell’Asia minore ne fecero della città fenicia di Side un centro di riferimento e di lavorazione. Granada capitale andalusa, addirittura, adottò la melagrana nel suo stemma, tanti pittori medievali tra cui Botticelli la immortalarono con le loro opere, molte furono raffigurate nell’araldica, altre effigiate sulle monete. Un bastimento carico di simbologie naviga intorno allo splendore dei loro grani, significati e metafore di antichi miti e religioni legate alla produttività, alla fertilità, alla ricchezza e alla concordia.
Prunica Granatum, nome botanico del melograno, è oggi riconosciuto nel Sud Europa come pianta dalle benefiche virtù. Contenute in ogni organo, sostanze tanniche e vitaminiche capaci di  risollevare la nostra salute. La bacca carnosa e coriacea, detta balaustia raccoglie all’interno una moltitudine di semi perlati e rossastri a maturazione,  in piccole compartimentazioni dal sapore acidulo dette arilli; le differenti morfologie, definiscono anche le molteplici varietà coltivate.  
Melagrani a chicco grande o dal colore intenso, vivace o succoso, dal gusto agrodolce predisposto al sorbetto o dolce per il consumo fresco. Spicca tra esse la Selinunte, la Dente di cavallo, la Neirana e la Profeta. Quest’ultima è quella più diffusa nel Salento, un tempo si adagiava tra i giardini gentilizi quasi come se fosse pianta ornamentale oggi si rivaluta seriamente prodotto per l’industria alimentare e della fitocosmesi.

di Mimmo Ciccarese