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La proposta autorale di Antonio Verri, nel periodo che qui si vuol considerare come suo apprendistato poetico – dal fare rivista sul finire degli anni ‘70 a “Il pane sotto la neve” (1983), fino a “Il fabbricante di armonia” (1985) –, appare colta in un doppio vincolo; se da un lato l’autore non si risparmia dal punto di vista dello scandagliare le radici popolari, dall’altro queste sono ricercate non come espressione di un localismo letterario, al contrario già dalla prima raccolta poetica, “Il pane sotto la neve”, appunto, Verri, lungi dall’esaurire il discorso sul “popolare” al solo Salento, procede in una estenuante ricerca che lo porta ad affrontare idiomi provenienti da tutta Italia. Ritroviamo questo doppio vincolo come caratteristica preponderante della prima parte della produzione letteraria di Verri, il più delle volte esplicitata nella tensione amore-odio che caratterizza il rapporto dell’autore con il territorio d’origine. Si notino i diversi connotati del dualismo verriano dal rapporto amore-odio di marca bodiniana che sfociava nei versi «Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da doverti amare»; se il poeta de “La luna dei Borboni” viveva afflitto da questa coppia oppositiva, l’amore-odio in Verri si sviluppava su coordinate composite. Verri infatti, lontano dall’esprimersi nei termini bodiniani sopracitati, costruiva un itinerario d’amore che a ben guardare isolava determinati punti di contatto col territorio, formulando una mappa dei suoi tòpoi, mostrando una serie di luoghi e motivi (da Castro a Otranto, da Cardigliano ad elementi altri, quali il vino ecc.) che assurgono a schema reiterabile che l’autore, di fatto, elegge a struttura nelle varie tappe della sua produzione letteraria. In questo senso, il doppio vincolo amore-odio non risulta esteso al Salento nella sua totalità, al contrario l’amore appare radicato in una serie di punti di sutura geo-esistenziali che costituiscono la reiterabilità poetica dei luoghi; difatti, questi, sono scelti per la loro sostanza poetica senza identificarsi con la totalità del territorio. Al contrario, l’odio è articolato nell’attitudine polemica che attraversa l’opera verriana, scagliato contro un territorio colpevole di autoisolamento, opportunismo e clientelismi vari. “Il pane sotto la neve”, aperto da un omaggio ad un nume tutelare della poetica verriana, Carmelo Bene, procede sulle coordinate Bene-Joyce, Lorca-Bodini, senza dimenticare le esperienze di Consolo e D’Arrigo, ma anche Pavese ed uno sguardo già teso verso la Beat Generation di Kerouac e Ginsberg. Il lorchismo italiano, nella fattispecie quello di marca meridionale, tracciato negli anni da Carrieri e Bodini, è in parte eletto a modello da Verri in questo primo frangente della sua opera, salvo poi procedere ad uno scarto, sposando fin dall’esperienza de “Il pane sotto la neve” gli stilemi del postmodernismo, i quali trovano agio nelle sue parti in prosa e nelle successive “Varianti d’autore” de “Il fabbricante di armonia”, dove il gusto per il gioco, le bufferie, il calco, l’elencazione, il neologismo, diventa carattere predominante sancendo un “andare oltre” rispetto alla poetica bodiniana. In una raccomandazione del 1987, poi pubblicata in apertura della riedizione de “Il pane sotto la neve” (Kurumuny 2003), Verri affermava che «fare letteratura, da un bel po’, vuol dire soprattutto corteggiare, avvicinarsi, al romanzo» e allo stesso tempo parlava di un omaggio alle radici contenuto nel libro. Il motivo dell’opera trova nella coppia oppositiva amore-odio ancora elementi di sviluppo. La pratica poetica, se da un lato cerca i genitori, le radici, dall’altro è già proiettata altrove e a testimonianza di ciò è possibile far riferimento all’ampio campionario di termini provenienti dai più disparati dialetti della penisola, i quali, assieme alla ricerca sul folklore salentino, concorrono alla costruzione di neologismi e di una lingua materica, composita, mescidata, costruita su corrosive stratificazioni culturali. La costruzione di un melting pot letterario procede sin dalla prima opera, agendo sulla falsariga di un Joyce omaggiato al punto da far coincidere l’alter ego verriano col personaggio joyciano di “Stefan” (Stephen Dedalus).
La curiosità verso le culture popolari è manifestata in maniera chiara a partire dalla pubblicazione del testo “La cultura dei tao” (1986) in cui l’autore afferma che «i proverbi aprono al mondo». La direzione che il popolare assume nell’opera verriana appare così determinata al raggiungimento di una apertura, di una forzatura dell’orizzonte poetico e conoscitivo tale da rompere gli argini territoriali. In questo periodo Verri ha già conosciuto Dòdaro, ne sono prova la partecipazione di quest’ultimo alle riviste verriane, le quali erano in un primo momento a carattere prettamente locale, dalle tematiche agli autori coinvolti, salvo poi dilatare gli orizzonti a partire dal contatto, dall’amicizia e dalla collaborazione di Verri con Dòdaro. L’incontro Dòdaro-Verri può essere inquadrato nell’ottica dell’influenza del primo sul secondo, seguendo la formula utilizzata da Bufalino per qualificare l’influenza di Poe su Baudelaire; ossia nei termini di un «vampirismo intellettuale» che comporta nel caso di Verri un salto ed una maturazione poetica. Sulle pagine delle riviste verriane l’orizzonte si amplia, vengono ospitati numerosi autori provenienti dall’ampio raggio di collaborazioni dòdariane, da Lamberto Pignotti a Luciano Caruso, da Klaus Groh a Ugo Carrega ecc., e allo stesso tempo è Verri ad aprirsi al mondo, seguendo la formula poi indicata in “La cultura dei tao”, stabilendo una serie di contatti autonomi, che in una parte esigua e non rilevante, dunque non programmatica, aveva avviato già a partire da “Il pane sotto la neve”, ampliandola in maniera considerevole, aderendo, inoltre, alla tessitura propria di quel “Salento europeo” che l’autore ricordava nella nota biografica del suo “I trofei della città di Guisnes” (1988), ovvero quel «Movimento Genetico di F. S. Dòdaro, una delle linee portanti del Salento europeo».

Nel 1988 Antonio Verri formalizzava la sua adesione al movimento di Arte Genetica, ma si trattava solo di una tardiva formalizzazione, in quanto l’autore aveva già da tempo iniziato a nutrirsi delle ricerche dòdariane. Nella sua lettera di adesione scriveva: «Caro Saverio, ecco la mia formale adesione al Movimento Genetico: dico formale perché tu sai benissimo da quant’è che ho assorbito (e anche usato: Betissa e Trofei fanno testo) le tue intuizioni genetiche, le tue geniali idee, i tuoi voli, i vastissimi campi che possono essere esplorati dal tam tam armonioso, materno, disarmante, monotono, primordiale, vitale; quanto la poetica del tuo Movimento non dia altro, in definitiva, che l’idea del corpo che racconta, copula, plasma, irrita.. […] Intanto aderisco, dopo ti verrò a trovare perché, lo sai, non ho finito di usarti. Sto chiedendomi per il Declaro, qual è (eccome) il segreto della ripetizione o lo scavo, l’intreccio, la radice delle parole» (Verri, in Sudpuglia, 1989). A partire da “La cultura dei tao” l’opera di Verri è segnata da un radicale e progressivo slittamento verso l’adesione al “femminile” in quanto matrice e orizzonte della poetica, un passaggio espresso in una forma embrionale nel testo del 1986 e definitivamente raggiunto nel 1987 con “La Betissa. Saga composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora”. È proprio la “Betissa” a farsi portavoce di quanto poi l’autore affermerà nella lettera di adesione al Movimento Genetico. La scrittura, intesa nei termini di un corpo che racconta è dunque un corpo desiderante che sotto i colpi della parola, la quale veicola il desiderio, è teso ad una continua ispezione e sedimentazione dell’anthropos del quale tenta una trasposizione letteraria dove «finalmente muoversi nell’oggetto del suo desiderio», come riporta Verri a pagina 30 del suo “Il naviglio innocente” (1990). Dall’esperienza di  La Betissa  in poi la madre appare sempre più radicalizzata e presente, fondante l’intero asse della poetica verriana, ma non più assimilabile alla figura della madre biologica, al contrario è colta nel movimento desiderante della scrittura che in continuazione vede l’oscillazione di questo desiderio entrare-uscire dalla madre in quanto tale che poi appare come madre terra, mare, acqua, e quanti oggetti e visioni si mostrano al poeta nella sua percezione autorale, in un tutto spesso indistinto e senza forma, o quasi, che permette appunto l’estenuante oscillazione della figura della madre in una frammentazione continua di figure diverse. In questo senso subisce un duro contraccolpo anche la figura dell’autore che smagrisce nel testo, diviene flebile. Attraverso il contatto con l’opera dòdariana è l’adesione alle teorie di matrice postfreudiana a delegittimare il soggetto autorale. L’Io è decentrato, la fissazione identitaria appare incline allo smarrimento, si perde al punto che l’autore è dislocato, è altro da sé e sconfina in una costellazione di personaggi e luoghi, laddove la terra appare “porosa”, recuperando l’amore verriano per l’opera di Walter Benjamin, ed i confini fra corpo e spazio si fanno sempre più labili. Da questo punto di vista, un tassello importante è dato, proprio in “La Betissa”, dalla vicinanza di Verri all’opera di Samuel Beckett, in particolare il testo verriano ricorda nella struttura e in alcune concezioni dello spazio l’opera “Non io” dell’autore irlandese dove è possibile esperire il corpo in quanto spazio; infatti sulla scena beckettiana appare una bocca e solo quella è illuminata, il resto del corpo scompare nello spazio buio del palco. Scrive Beckett: «Bocca: fuori. / dentro a questo mondo. / questo mondo. / piccola minuscola cosa. / prima del tempo. / in questo dio porc- / cosa?», e sembra fargli eco Verri: «Uno, punto sull’uno! / Nulla lasciano di verde, nulla d’intatto / Due, punto sul due! / Nella bocca maligna innestano una baionetta, e alla luna che si vela offrono il dorso». Quella di Verri, da “La Betissa” in poi diventa così una lingua sonora, melo-logica, improntata alla preponderanza sonora del significante, ma senza apparire stritolata da questo in un marasma primordiale come possiamo ritrovare in Zanzotto, via Emilio Villa, al contrario quella di Verri permane come lingua sociale, culturale. A legittimare l’ipotesi di una lingua-suono è proprio Verri che a pagina 38 della Betissa riporta «Mi accorgo solo ora che dòdaro ha ragione, che poesia è ripetizione», facendo un chiaro riferimento alla teoria genetica elaborata da Dòdaro e al conseguente battito materno come matrice dei linguaggi, dunque suono e ripetizione. La scrittura appare mitizzata, si pensi alla lettera di Alessandro, protagonista di La Betissa, che indirizzata alla madre mostra come lo spostamento all’interno del mito di Icaro dalle ali di cera al trabiccolo volante di scrittura, metta in atto un processo di mitizzazione delle parole che in Verri, avendo connotati desideranti, altro non sono che il corpo attraversato e parlato dai significanti, in balia del contesto perché indistinto da esso; la scrittura mitizzata è lasciata depositare ed entrare-uscire dal corpo. La scrittura-madre, corpo-madre e corpo-autorale, è colta nella dicotomia leggerezza-pesantezza, laddove nelle ultime opere dell’autore si manifesta sempre più il carattere di pesantezza, dell’impossibilità, del fardello dell’eterno ritorno. In questo senso gli elementi della poetica vanno e vengono, tornano sempre amplificati e i tòpoi verriani si ripetono in quanto struttura poetica e narrativa, di volta in volta attraversati dalle diverse suggestioni del momento.

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