«A volte mi affaccio dall’unico balcone ancora aperto nella mia stanza e cammino sulla balaustra che sporge in avanti verso il vuoto.»


Nell’indeterminatezza di un futuro che spinge verso il vuoto, l’instabilità totale, il passato è deriva. Sporgersi in avanti verso l’ignoto non resta che l’unica soluzione, decidendo di affrontare il mondo con un volo chiamato vita, cercando la forza e le ragioni dentro di sé. Lo sporgersi nel vuoto diventa un tuffo nel proprio passato, cercando dentro sé le ragioni di un passo sospeso.

La dialettica del passato trova sfogo fra le parole, le righe, la punteggiatura e gli spazi vuoti che rendono l’atto dello scrivere un atto sospeso, come un passo mentre ci si proietta verso il vuoto.

«e di stomaco aggiungo parole su ogni pagina
mentre le dita contano i sussulti ad ogni passo in penombra dietro la mia schiena.»

Il passato spinge ad una consapevolezza di sé intima e intimamente profonda, rende la scrittura un parto della propria persona, oltre che dell’animo, un parto del proprio corpo. La scrittura si fa carne, fuoriesce dal corpo come un figlio nell’atto del partorire.
Nasce, forse, come spesso accade per tanti/e altri/e, dal dolore. Come un sussulto che ci si porta dietro dalla nascita. Palpita, nello scorrere dei giorni lungo il nostro corpo.
È un fatto di carne che si mescola ad anima che si fanno una cosa sola nell’esprimersi come scrittura.

Il sapore non è quello di chi vuol far poesia e scrittura perbenista, di chi si incanta sul solito sapore d’amore e d’illusioni, qui ci si brucia, e fa male, di poesia che sa di vita, come tanti pezzi di carne che camminano per le strade popolando le nostre giornate d’ipocrisia.

«Sulla poesia
ci verso del rum schietto
perché non ho più i boccoli biondi
e le ginocchia sempre sbucciate
ma di quella mattina di sole in piazza,
io, lui ed i Tre Martiri del Foro,
mi ricordo bene.»

È poesia, questa, che ci racconta di storie vere, che son malate perché è malato il mondo, un mondo dove esser veri e sinceri è, forse, un problema molto grande, troppo da poter gestire, è peccato esser buoni.
Quando smetti d’esser bambino tutto cambia e smetti d’esserlo quando crollano le illusioni, i castelli che con tanta cura ci si costruiva.

«Ascoltavo note tra gelati, bandiere,
pomeriggi musicali e
i primi viaggi nel tropico del cuore.
E la figlia del droghiere
ad addormentarmi ogni sera d’estate.
Mi manca la dolcezza della sua voce grigia di sigaretta.
[…]
Voleva farmi credere ad una Rimini navigabile,
ma se riuscirò a galleggiare stando dritta sarà già abbastanza.»

Esser sopraffatti dal rumore dell’indeterminatezza, il chiasso che può provocare soffermarsi su un viso, ma senza ascoltare, il chiasso che l’autorinuncia all’ascolto impone.

«…se sei solitudine sei una creazione viscerale senza limiti né contorni.
Sei la paura femmina, la prima dopo la morte. Sei una fessura in terre emerse al contrario e inghiotti
antimateria senza ragione. Ma io questo non posso capirlo. Perché alcuni devono dire che incuti timore? Io ti conosco e tu riconosci me. Li spaventi probabilmente eppure per me sei molto bella! E non sei mai stata l’affondo finale e mai lo sarai. Da qui ad un istante non sarai il tremore delle mie ossa, questo non riguarda te. Non sei il silenzio. In mezzo a questo frastuono, a queste bocche un po’ aperte e un po’ chiuse tu ci sei. Forse è solo che gli scheletri qui intorno possiedono cento lingue infuocate per cranio, ma le orecchie per ascoltare la tua voce serena raramente gli affiorano ai lati del cervello.»

Tutto è così dannatamente materiale, ma nel senso più buono del termine, dove materiale diventa l’animo che si fonde alla carne generando una lega nuova, spessa e densa, ricolma di vita ed emozioni. Tutto è così, tanto da trasformare in materiale anche l’intangibile come l’aria, i profumi, i respiri, le ore…

«Ci siamo inventati le ore e poi le abbiamo spremute
come arance.
Ora ci resta solo la buccia, ruvida e sfinita,
scolpita nel palmo delle mani.»

Il passato è filo conduttore di una scrittura che si fa parte di sé e di “sé” che si fa scrittura in un circolo vizioso, un moto circolare che si ripete all’infinito.
E non c’è via d’uscita, è come un dialogo eterno fra sé e sé.

Francesco Aprile