Cro magnon, Australopiteco, Ergaster, Neanderthal, indi Homo Sapiens, solo per citarne alcuni, tutti ominidi che ci hanno preceduto nell’evoluzione e da cui discenderemmo. Per alcune specie, infatti, si parla di estinzione prima del Sapiens, acclarato progenitore le cui tracce risalgono a circa 200.000 anni fa. A vedere le ricostruzioni fotografiche sorridiamo ma anche sgomentiamo su quel come eravamo... morfologicamente. Ora leggiamo il seguente incipit: “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti...”, anche qui è un come eravamo, in àmbito scritturale, si tratta del Placito di Capua, un testo in proto-italiano del 960 (senza il mille davanti!) che si affacciava a sostituire il latino rappresentando il cosiddetto volgare. In breve, è un documento presentato in una causa, un contenzioso tra la comunità monastica benedettina e un signorotto, le parti rivendicavano il possesso di un latifondo. Nell’italiano attuale lo stralcio del testo è: “So che quelle terre, delimitate da quei confini, da trent’anni sono possedute dai monaci benedettini...”. Ebbene se in termini evolutivi morfologici la genetica richiede migliaia di anni, per quelli scientifici culturali, e la scrittura è tra questi, i tempi, per fortuna, sono più brevi ma ugualmente ineluttabili. La lingua ha subìto variazioni per motivi diacronici (in rapporto al tempo trascorso), diatopici (in rapporto allo spazio inteso come luogo in cui si proferiva), diastratici (in rapporto allo strato sociale dei parlanti), diafasici (ovvero condizionata dalla situazione in cui l’oratore si trovava a conferire). Tali incidenze linguistiche sono cogenti tuttora se pensiamo che qualsiasi oratore, nel suo parlare, sempre sarà condizionato dal luogo in cui si trova, dal livello culturale degli astanti, e dalla situazione. A integrare l’italiano poi ci sono stati i cosiddetti prestiti, ovvero le parole e le locuzioni importate da un’altra lingua: bar, bistecca, garage. E i calchi: conferenza stampa, grattacielo, alfanumerico. La differenza tra i due sta nel fatto che il primo fa arricchire il vocabolario di nuove voci, la seconda utilizza materiale già esistente modificandolo, per esempio il nostro sicario diventa killer, il dirigente manager. Si crea quindi un sinonimo equipollente. Non demonizzerei i forestierismi acquisiti che, invero, non hanno depauperato la nostra lingua; chi farebbe a meno di parole (francesismi) come gaffe, menu, toilette quest’ultima ingentilisce il bisogno di chiedere di dover andare al... gabinetto, sostantivo che pure ha una funzione polisemantica. Oppure (anglicismi) guardrail, hard disk, mouse. Certamente assai spesso si è esagerato nel ritenere più verde l’erba del vicino, la nostra andava benissimo ma ormai gli anglicismi si sono così radicati che l’italiano calcolatore non assurgerà più al posto del computer. Quindi per la lingua e la sua evoluzione vale l’assunto che l’uso reiterato, ancorché non propriamente ortodosso, nel tempo, quindi in diacronia, legittimerà il lessema sino a trovar posto nel GRADIT (grande dizionario italiano). Ma non sempre; il valzer degli accenti sul baule non modificherà il peso della nostra cassapanca (a proposito baùle è un altro prestito, ispanico questa volta) quindi lasciamo l’accento, grave, dove deve stare, sulla “ù”, piana e non sdrucciola. Ibidem per salùbre. “Ma però” e a “me mi” demonizzati un tempo, puniti con penna blu dal maestro sono poi passati a quella rossa e ora completamente sdoganati, dall’uso, ritenuti rafforzativi o, come dicono i dotti, con funzione anaforica, cioè ripetizione, pronominale nel secondo caso. Quelli che mi auguro di cuore non vengano resi idonei sono gli imbrogli semantici come quello costituito dal “piuttosto che” con funzione disgiuntiva. Nata negli anni ‘80 tra la Lombardia e il Piemonte (quindi in diatopia), questa locuzione truffaldina vuol farci credere che se dico: “Possiamo andare in montagna piuttosto che al mare” sto inducendo a preferire le vette alle onde, talvolta vi si aggiunge pure un luogo lacustre, con comparazione ternaria. Dobbiamo, inequivocabilmente dire invece, questa sì è una congiunzione disgiuntiva. Il “piuttosto che” non disambigua la preferenza e rende la proposizione equivoca. Capitolo a parte meriterebbero i segni paragrafematici, ovvero tutti quei simboli che pur non appartenendo al testo ne agevolano la comprensione: segni di interpunzione, esclamativi, interrogativi, di sospensione, virgolette e lineette (con funzione diverse se con fogge diverse). Ma fermiamoci ai primi. No, non tirerò fuori l’apologo del frate, Martino che per un punto perde’ la cappa (notare l’apostrofo che favorisce l’apocope), se non lo ricordate cercatevelo. Semplicemente chiedo ad un amico, sia pure per whattsapp: “Come stai?”. Se lui mi risponde: “Sono vivo e vegeto” sono tranquillo, sta bene. Se però mi scrive: “Sono vivo, e vegeto”, devo andare a trovarlo, manifestargli il mio apporto, quella virgola fa la differenza! Ed è sostanziale. Se non l’avete colta non sapete usare le virgole, me ne dolgo.