Di un Sud ingoiato dalla Storia. Sulla poetica di Vittorio Bodini


Proponiamo una ricognizione, un breve viaggio nella densa poetica di Vittorio Bodini e il ruolo del poeta.
 

 
 
Un intervento di
 
Gianmario Lucini*



1.

La poesia di Vittorio Bodini è caratterizzata da un linguaggio diretto, forte, essenziale anche se discorsivo, anti-decadentista, ovviamente già dalle prime poesie "futuriste". La prima raccolta edita, ha in comune con gli artisti fiorentini degli anni '40 (ermetici fiorentini) la forza e profondità evocativa delle parole e dei concetti, e insieme porta la ricchezza del simbolismo e la tensione emotiva della poesia lorchiana. In La luna dei Borboni, Bodini ricostruisce ambienti e atmosfere del salentino "corroso, arido, vuoto, superstite, assetato, acrono, inerte; è "pietra" che solo "l'alcol" scioglierà alla fine. … tutto "falso", dalla "città" ai suoi "angeli di pietra" (Macrì). Il poeta usa abilmente un gioco di marche semantiche, rime interne, omofonie, nomi e aggettivi ricorrenti che tendono a ricostruire l'ambigua e immobile dialettica insita nel tutto e nel suo inerte stare, la cui sintesi si consolida in una serie di coppie antinomiche forti, dalle caratteristiche di luce/ombra, morte/vita, aridità/verde, ecc. La sintesi di questo immobile contrasto, che è anche un riferimento alla terra salentina, al lavoro dell'uomo e dunque ad una sua caratteristica sociale e spirituale, è la foglia di tabacco. Spicca, alla fine della raccolta Foglie di tabacco (1945-47), che introduce La luna, il verso isolato nel quale il poeta si paragona e si identifica spiritualmente in S. Giovanni da Copertino, in quel suo volare (distaccarsi, non sentirsi parte di una realtà amata ma insopportabile) e in quel suo carattere "rissoso".
È una poesia dai forti contrasti dunque, che in qualche modo rappresenta l'ambivalenza del poeta verso la sua terra, un Sud intristito da un tempo che si è fermato e che lo schiaccia, dove l'aridità domina ogni scena vivente, riconducendola al paradosso di un'esistenza che non esiste, di una vita di nulla e del nulla. Può apparire, questo, un giudizio un po’ impietoso verso la sua terra, ma è anche una giovane penna quella che scrive, una giovinezza che vuole conoscere, partecipare al fermento della vita culturale europea che nell’immobile provincia di un estremo lembo d’Italia, pare così irraggiungibile, chimerica. La sua è dunque la reazione di colui che conosce il nuovo, verso un ambiente che appare impermeabile al nuovo. Dal tempo dei Borboni il Sud non è cambiato nella sua essenza. Lo spirito di allora è lo spirito di oggi. Il senso del barocco, del mistero, trasuda dalle case e dai palazzi della sua Lecce, nei soli e nelle lune stillanti oro, sangue e vita perduta in un vivere epico e dimenticato, come se la storia lo ingoiasse e senza fine lo risputasse identico. Non questa metafora soltanto, possiamo leggere nell'allusione del titolo e nei contenuti dell'opera, ma anche il riferimento al tema "tutto cambia perché nulla cambi", di gattopardiana memoria, anche alla vicenda della neonata democrazia italiana, in senso amaro e disilluso (come poi è detto senza veli in sue corrispondenze e prose), che associa parecchi autori meridionali del dopoguerra. Oppure potremmo leggervi anche un sentimento di abbandono, come interpreta il Macrì nella citazione precedentemente riportata. L'intera opera del Bodini infatti, per la sua ricchezza di simboli e allusioni (merito, credo, della meditazione sulla poesia lorchiana), presenta una polisemanticità davvero ricca che moltiplica le possibilità interpretative, lasciando al lettore un'ampia libertà ermeneutica e una lettura più personale del testo (caratteristica questa, della migliore poesia del '900).
La poesia di Metamor invece, accogliendo anche alcuni diversi spunti stilistici e un diverso linguaggio (più lirico-discorsivo, a volte struggente, meno ossuto del precedente ma più denso di simbolismi surreali di non facile interpretazione), si avvicina a una vena esistenzialista e a una tematica politica e sociale pur importante in quegli anni (ad es. Pasolini, Turoldo, e altri), pur senza mai toccare i toni disperati e struggenti che troviamo invece in altri poeti, come la Rosselli. Bodini assiste sconcertato alla crescita economica disordinata di un'Italia che vuol lasciarsi indietro l'atavica miseria a qualunque prezzo, e sente l'esigenza di fermarsi, di riflettere, di considerare la portata degli avvenimenti che si profilano nell'immediato futuro. Da questo punto di vista dimostra (anche in raccolte inedite come Zeta e La civiltà industriale o Poesie ovali) un'acutezza di vedute e una sensibilità che troviamo forse soltanto nel Pasolini dei romanzi o delle raccolte poetiche più "civili", che sono comunque posteriori a questi versi.

2.

Detto senza titubanza e senza timore di esagerare, Vittorio Bodini è stato uno dei migliori poeti del novecento, sia sul versante dello stile, che sul versante delle tematiche.  La sua è una poesia insieme lirica e civile, vibrante, vera. I decenni che seguirono la sua morte (1970) hanno visto il periodo forse più nero della poesia italiana, segnato da un progressivo e non ancora concluso decadimento, le cui cause sono molteplici ma in gran parte attribuibili a una pessima politica culturale di tutti le agenzie di cultura (sia private che pubbliche), un fiorire di esperienze pretestuose, caratterizzate da un narcisismo esasperato e generalizzato fra i poeti e dall’assenza di una genuina formazione linguistica, di ispirazione genuina e di sicura libertà. Da una parte fiorì la lirica individualistica, piegata su se stessa e compiacente dei suoi deliqui che si attardavano in continue riedizioni post-decadentiste e post-crepuscolari e dall’altra una sorta di poesia filo-di-ferro, fatta di lacerti e monconi di parole, grugniti, o per contrasto una poesia del niente assoluto emotivo, anaffettiva, asettica, fredda. La poesia civile sparì quasi del tutto lasciando spazio o agli sperimentalismi o alla rivolta contro la lingua e le sue convenzioni o, paradossalmente, contro la “poesia” stessa, in nome di chissà quale libertà e non accorgendosi che la libertà non consiste in un atteggiamento linguistico sregolato e avulso da qualsiasi convenzione comunicativa, ma nella sostanza di un pensiero poetico. Innumerevoli sono i “filoni” della nuova poesia, taluni di qualche pregio, altri senza alcun pregio ma nessuno, a quel che si intuisce, capace di trovarsi una identità così forte da segnare un passaggio, un’era, un’epoca storica. Soprattutto mancano personalità poetiche autorevoli, poiché quelle che sono riconosciute tali, anche dalla critica, spesso non sono personalità autentiche, ma prodotti dell’industria libraria, più o meno di successo. Le personalità nette, schiette, vere, capaci di essere una voce che traghetti il proprio tempo nella storia e di incarnare l’etica del poeta come tramite fra generazioni, così come accadde per Bodini, sono ormai scomparse.
La riprova è che, dopo innumerevoli studi, convegni, saggi e fiumi di inchiostro spesi per commentare e studiare l’opera (così modesta, per numero di poesie) del Bodini, egli rimane uno dei più misteriosi e poco conosciuti autori del ‘900, ma non perché gli difetti il riconoscimento, ma perché al di là della triade Ungaretti, Montale, Pasolini, che in qualche modo incarnarono delle importanti tappe di rinnovamento della poesia, tutti gli autori del ‘900 sono trascurati o vivacchiati dalla cultura. In molte antologie della poesia del’900, ad esempio, Bodini non è neppure citato, mentre si spendono esagerati elogi per poeti tutto sommato mediocri. É cambiata insomma la figura del poeta, il modo col quale la società considera colui che scrive poesie, perché la poesia è, probabilmente, l’arte meno strumentalizzabile, meno adattabile a una logica di mercato e, nello stesso tempo, la più immediata, la più a portata di mano, l’arte che ognuno può fare senza nulla, soltanto col pensiero e con la parola, senza bisogno di spartiti, di colori, di materia da modellare, di spazi, di luce, di palcoscenici.
L’errore dei poeti è stato, forse, proprio quello di voler rincorrere la tecnologia, per un’arte che non dispone né può disporre di alcuna tecnologia se non del linguaggio, o forse la scrittura – se viene scritta. Ed è proprio contro la parola che si sono accaniti tutti i “riformatori” della poesia, gli sperimentatori, gli avanguardisti, senza peraltro sopperire con lo spessore, la profondità del pensiero poetico, ma argomentando le proprie scelte con la corrosività del pensiero logico che non di rado ha prodotto, in questo campo, una macerie di sofismi e velleitarismi contrabbandati per arte.
La mia idea è che, al di là dello stile, delle tematiche o della indubbia qualità versificatoria della poesia di Bodini, sarebbe bene guardare a questo (e ad altri) poeta del ‘900, ormai abbastanza lontano nel tempo, come un esempio, direi deontologico; osservare la sua scrittura e domandarsi per chi ha scritto, perché ha scritto, che cosa voleva comunicare e con quali strumenti l’ha fatto. ottenendo quali risultati. Il risultato più impressionante, credo, è quel continuo interesse intorno alla sua figura, che a volte pare scemare ma poi improvvisamente rispunta e ripropone la sua opera come un esempio indiscusso di alta poesia. Non ci importa molto infatti del suo stile, che tuttavia è ancora fresco nonostante siano trascorsi quattro decenni dalla sua morte, ci importa qualcosa di più dei suoi temi invece, che lo rendono attuale in un contesto storico e politico (italiano e mondiale) come quello odierno, ma soprattutto ci interessa conoscere la sua grande opera di modestissima mole, proprio per capire il senso dello scrivere poesia e dell’interpretare il ruolo del poeta.



*Gianmario Lucini, breve nota bio-bibliografica:

Nato a Sondrio nel 1953 è stato operatore sindacale, laureato in Scienze dell'Educazione, ha  operato presso l'Associazione don Milani di Gioiosa Jonica aggiungendo agli impegni culturali la sensibilizzazione sulle problematiche delle mafie. Negli anni '80 ha scritto su diverse riviste e, dal 1998, si dedica al sito Poiein.it, partecipa al volume Poeti del dissenso con F. Ciofi, E. Passannanti, R. Astremo. Si occupa di poesia e critica, filosofia e realizzazione di filmati culturali, organizza annualmente i concorsi letterari dedicati a D. M. Turoldo, a F. Fortini e “La bocca della verità”. Dal 2006 al 2009 è direttore del periodico locale All'ombra del Rodes, edito in Valtellina. Nel 2010 ha pubblicato, con puntoacapo, 5 monografie di poeti, I quaderni di Poiein (A.de Vos, V. Serofilli, A. Ferramosca, G. Nuscis e D. Raimondi). Dall’autunno 2010 svolge l’attività di editore con la sigla CFR edizioni.

Ha pubblicato:


Vecchio è il tempo, 1984
Allegro moderato
Sapienziali, PuntoAcapo Editrice, 2010
A futura memoria, Edizioni CFR, 2011
Il disgusto, Edizioni CFR, 2011