«La Decadenza è la perdita totale dell'incoscienza: perché l'incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe. [...] Oggi sono un ascetico nella religione di me stesso. Una tazza di caffè, una sigaretta e i miei sogni sostituiscono bene l'universo e le sue stelle.»

Così scriveva Pessoa, per voce del suo pseudonimo più celebre, Bernardo Soares, nello scorrere morente delle prime pagine de "Il libro dell'inquietudine". E così, potremmo dire, si apre “Ugly Little Girl” il nuovo album dei Bruise Violet. Parole dalla timbrica tipica di una voce forte, squillante, dilaniata, che lotta sconfitta nelle maglie strette del mondo.

E come mondi e vite in plastilina, queste parole si adattano, modellano, all'instabilità dell'incoscienza sonora dei Bruise Violet. In apertura. Suoni rumori versi. Parole e l'illuminarsi fragile, stanco, malconcio di uno scarto di vita. Un intro. Una voce: "Rompi il vetro d'autoincoscienza".

Così continua, "non c'è principio e non c'è fine", il sangue e tutta la sofferenza di un mondo e una, due tre e mille e mille vite chiuse in una perfezione mai raggiunta, il percorso stabile che la band salentina, nata nel 2001, porta costantemente avanti, fra decadenze sociali, soffiando via la polvere d'ipocrisia stretta al vivere, scoprendo nervi tesi di essenze cupe.
Visione totale di un affresco martoriato dal tempo.

L'impegno della band è, oltre che musicale, di tutto rispetto immerso nel sociale. Brani che racchiudono nella loro violenza, esteticamente cupa e intensa, minuti come pillole d'aria artefatta e brandelli di carne strappati via dall'impatto sonoro - che trasuda giorni persi, sciolti, lungo lo scendere di piogge acide. L'energia ed il fragore di un vetro in frantumi, di tanto in tanto, cedono il passo a momenti di calma apparente, come simbolo e richiamo alla tempesta che verrà.  L’alternanza di questi momenti replica, chiama alla mente, suona, sussurra, le turbolenze testuali del cut up di William S. Burroughs. Le dieci tracce dell’album come ritmica essenziale, colonna sonora portante, ideale, del Pasto Nudo di Burroughs che un ascolto del disco alternato e accompagnato dalla lettura del romanzo non potrebbe che generare un immaginario disincantato, di lotte e fughe, frustrazioni e violenze. Il suono di una macchina che muta e violenta la profondità arcuata del mondo, arcuata in pozze di sangue, ritorni come mancanze di vita stessa. La voce si modella con facilità sulle correnti alternate che segnano il tempo di una musica come scossa vitale di reazione al mondo stesso, come un tentar di ridar vita a corpi morti di carcasse umane, lungo bordi di strade trasognate, dai contorni strappati di cielo nero petrolio.

«Il pianto sordo dell’amore morente» così recita la voce di Claudia nell’ultimo brano, l’Outro che chiude l’album, come pullulare elenchi di parole che tracciano la sincope di questa esistenza. Poetare fremiti come notti lontane nell’apostrofo collerico del niente.


Francesco Aprile