Pagine dal sapore di memoria. Pagine che si portano addosso il gusto di certi valori che via via si vanno dimenticando, perdendo, dissolvendo senza lasciare traccia alcuna nel continuo divenire che stenta ad arrivare.
Kurumuny pubblica "C'era una volta", terza raccolta poetica di Aldo De Jaco. Era il 2003 quando la casa editrice salentina dava alle stampe questo lavoro intriso di memoria, come recita anche il sottotitolo dell'opera, "Poesia come memoria".
La memoria è una costante, come la lotta. C'è un senso di giustizia che ribolle nel sangue, c'è la voce degli inascoltati schiacciati dalla storia che urla di rabbia lungo la poesia memorialistica di De Jaco.
"C'era una volta" si introduce da sé. Il titolo ci conduce in un immaginario fiabesco, portando verso l'errore il lettore che riprende la giusta via concentrando lo sguardo lungo le lettere che vanno a comporre il sottotitolo dell'opera. Perché la memoria mal si affida ad una fiaba. La memoria ha il sapore duro della vita. Lacera gli orizzonti di un futuro che dissimula e poggia le proprie basi su castelli di sabbia.
C'è rabbia autentica di vita vissuta. C'è passione.
Per scendere in questa poesia bisogna sporcarsi la faccia, le mani, l'anima. Rendersi conto che il cuore è livido, che ci portiamo dietro mille e infinite eredità da non dimenticare e da non devastare.
Questo è anche l'approccio che propone lo stesso autore, "col volto sporco di manifesti".
E così De Jaco cammina fianco a fianco con se stesso, si osserva lungo il percorso della sua vita e si guarda impallidire nel corso degli anni. C'è una ferita aperta e si chiama memoria. Ci sono parole che fanno male e non vanno dimenticate.

"Io ho ucciso Andrea
Fummo in due ad appostarlo
Io e, lui dal volto pallido
Che sapeva di dover morire...
Infine..."

Ogni parola è un dialogo con se stesso come se di De Jaco non ce ne fosse uno solo, ma fossero due ad aver vissuto la stessa vita, le stesse idee, le stesse parole, con uno che punta alla morte dell'altro per tramutarlo in memoria attraverso le proprie parole.
Ciò che De Jaco scrive è la sua memoria. "C'era una volta" si propone come un diario, un diario in versi.
Questa raccolta di versi si evolve come un mare che non è più un infinito di chiare speranze, il blu non è più blu e il mare non è più mare perché il futuro non ha costrutto. C'è solo il passato, perché il passato è passato, ma non si riesce a scorgere un futuro nell'incertezza e dimenticanza del presente. Il progressivo abbattimento dei valori e rifiuto del passato porta a questo, a ciò che De Jaco chiama "Futuro senza costrutto". Il mare è, dunque, lo specchio per ciò che è il presente e ciò che sarà il futuro. Il poeta magliese torna e ritorna sui percorsi della storia, i sui corsi e ricorsi, e spera, un giorno, di tornare a vedere contadini sugli asini e padroni con gli stivali per far sì che la memoria continui ad esser tale e non vada persa in questo gioco al massacro che porta alla saturazione del futuro.
I meandri della memoria affondano la loro semanticità nel passato divenendo poesia del sociale in una dualità che vede De Jaco intrattenere un dialogo serrato fra sé ed un se stesso pallido di morte che scorre nei suoi occhi il tempo andato come base per il futuro.
Ma è un passato che è parola che si ripete lungo le strade di un bivio perché la dualità continua e la parola non è più solo passato, ma è passato che si fa attualità, come gli sbarchi sulla costa salentina.

"Sono qui, coperto di
antiche ferite, polvere, fanghiglia
e aspetto. Non so
se la fine o il principio o che altro: aspetto."

L'attesa è situa fra le rovine di una terra cosparsa di pietre e dolori, malinconie e rimorsi; aspettare diviente attesa lungo le pietre del tempo, in un universo costellato da pietre eccentriche barocche ed un tingersi di interminabile attesa, Godot.
La memoria scorre lungo la storia mondiale, ma anche locale, lungo le vite degli amici, i ricordi, la propria terra, i luoghi, le voci inascoltate come le morti sul lavoro.

Francesco Aprile