Cambia, il tempo, la pelle alle nostre parole. Il colore. Il suono ed il sapore. Come una nuova nascita od un serpente che cambia muta. C'è un motivo di rigenerazione in tutto questo, come il canto di un lupo che ci desta dal sonno in una notte che è vomito di parole. Perché esiste la fase della sbronza che è un po' come una rinascita. Vomitare il cuore. Assaporare la poesia del dolore.
Perché c'è dolore, ma è un dolore che, le parole in questione, generano nel lettore per la disarmante potenza. La poesia che non è più semplice componimento, è un trasudare estensioni percettive disarmanti. C'è tutto il disarmo e l'impossibilità a trovare una contromossa che il lettore si ritrova a subire, semplicemente attraverso l'atto della lettura.
Al di là dei livelli di lettura, l'approccio di cui gode e si fa portatore l'opera prima di Giuseppe Semeraro, Cantica del lupo, uscita per la collana Poet Bar di Besa a cura di Mauro Marino, è, appunto, il disarmo. La sensazione di non avere sensazioni. Tentare un ascolto che più non c'è.
Non c'è più ricorso a percorsi e bagagli esperienziali. Solo la desolatezza di una non risposta da parte del lettore che, da subito, si fa spazio e dimora per l'articolata verve poetica di Semeraro. Articolata passione, parola pura, che scorre via liscia, semplice, ma che ci catapulta nella capacità attrattiva che, le parole, esercitano sui sensi umani e le peculiarità del mondo.
La sensazione di perdersi, durante la lettura, in una landa sconfinata percorsa solo da parole, è il leitmotiv della raccolta. Non esiste verso che non abbia in sé la capacità di scuotere il lettore dal torpore che la pelle sbiadita dagli anni in polvere lo porta a vivere. Ogni verso è una fase rigenerativa che è oltrepassamento della precedente.
Mi ero avvicinato al testo sentendomi dire "Questo, è il più bel Poet Bar".
Sempre lontano dagli entusiasmi o dalle euforiche e positive considerazioni, cercavo, come sempre, un distacco da mantenere durante la lettura, quasi come quello fra me ed il cuore, troppo vicino per essermi amico, troppo stretto da poterlo amare, alla giusta distanza, quella di un respiro, lontani (io e lui) da ogni comprensione, per poterlo odiare.
Così, nell'odio buono, l'amore per le parole, cercavo la reazione che, puntualmente non c'era. Leggendo versi come «abito in questa pelle d'uomo», entravo ed uscivo continuamente da un me stesso diverso, come un serpente che cambia muta, come verso che corre di bocca in bocca.
Le parole assumono, poi, una connotazione dal sapore d’autunno, sono solo l’ombra di ciò che non possiamo raggiungere.
«Nessuna parola può avere il conforto di una rondine/che ogni anno torna a chiudere il cerchio/nessuna parola potrà bruciare/né cantare con me/le parole non sono più figlie del respiro/né consigli per tenerci salvi o attaccati alla vita/le parole ci fanno prigionieri i sogni/sono la soglia che divide e ci separa/sono l’ombra delle cose che non riusciamo mai a toccare».
La musicalità ha tinte tipiche dell’autunno. Delle foglie che scendono dal ramo come lacrime dagli occhi, come il mistero che scende con la notte, velo sottile dell’apatia che ci spezza lo sguardo.
Tutto è condito da impalpabile malinconia, perché le parole restano, ancora, «l’ombra delle cose che non riusciamo mai a toccare».
E c’è quasi una condizione di immobilità dell’uomo, del suo esser disadatto a sé, al suo corpo, del suo scorgere il mondo come un punto che è infermità nell’oblio dell’esistere umano.
«Abito in questa pelle d’uomo/dentro settantatre chili di polvere/escluso gli abiti/abito in questa solitudine familiare/e mi succede a volte di ferirmi le mani/per il troppo lavoro/per il troppo maneggiare la vita».
Come se la condizione della vita umana non fosse altro che una caduta, l’esistenza di un cuore che ha sempre troppa fretta, di un uomo, dell’uomo, che ha sempre troppa fretta e dipinge un mondo di parole che sono piccoli rigurgiti del cuore, un continuo balbettio, come brusìo, riverbero del pensiero che non riesce a farsi espressione reale di ciò che è, attraverso le parole, attraverso la vita che non sa farsi vita reale dell’uomo, in un continuo senso di disappropriazione del corpo che, come le parole disattendono il pensiero, disattende la condizione dell’uomo in rapporto al mondo ed alla vita, troppo stretta nelle vesti del corpo umano, ma che scorre nel desiderio d’essere corpo unico con la natura, il cielo, nella libertà che non è propria dell’uomo “socializzato”.
«Non è piacevole vivere in un corpo umano/vorrei piuttosto accovacciarmi sottoterra,/correre per i campi, mangiare quello che si trova».

Francesco Aprile