Come scendere a sud delle parole. È poi possibile? Intraprendere un percorso che sia circumnavigazione umana del termine Sud. È la parola che balla. Carica. Densa di tinte tragico-speranzose. È amore.

Sudapest di Irene Leo, Poet Bar (Besa), a cura di Mauro Marino, scandisce un tempo che è segno e sguardo misurato a sentiero nella distanza che lo separa dall'orizzonte.
Sudapest. Sono colori che giocano nell'incastrarsi delle parole fra le trame di una terra, il Salento, troppo persa a rodersi al sole, al tempo che è prigioniero di una dimensione mistico-teatrale che trafigge lo sguardo, consegnandolo ad un periodo, condizione dell'animo umano in uno sfumarsi di parole, vite e colori in tempi dispari.

«Ma non si può dimenticare il significato del piede che danza,/non si può scordare tutto l'amore./Sono figlio della cicala che canta nel pomeriggio,/dei pomodori appesi a mò di grappolo,/del niente che mi riempie la bocca e la pancia./Sono figlio tuo amara terra mia,/figlio di una speranza inesistente,/e di un'alba che mi fa ricco./Io sono nato a Sudapest.»

La radice, geografica/familiare, è condensato poetico di un agire "prosaico", legato ai tempi morti che si fanno strazio, dolore acuito dal continuo silenzio.

«Terra spoglia, terra negra, terra fresca, terra madre, terra puttana, terra santa, terra del Sud. Sudapest.»

Silenzio che è paradosso di una terra e un agire poetico, voce perpetua di un infatuamento della parola nei confronti del niente, delle evoluzioni acrobatiche di un castello nel nulla del cielo, nella secolare presenza di ulivi come certezze dell'animo.

«E sul viso, una macchia rossa, come un sigillo, una voglia, di libertà, di altrove.
Fu il suo tocco.
Una specie di regalo.
La forma di un'oliva, il colore del sangue, lo spessore del mio mondo.»

La delicatezza di un foglio su cui posare se stessi è il paradosso della vita, come quella di un fiore, che ride in faccia al vento, nel suo germogliare nella precarietà della sabbia.

«Avvicino il naso al foglio./Sa di terra e di umido./Leggermente gialle le parole come le mani che colgono dei filari dei pomodori solo l'anima, intrappolata appena, pronta a scompigliarsi tutta, comu na carusa ca balla./Queste parole come sono eterne./Sono paradossi, come quei gigli bianchi che nella sabbia calda dello Ionio te li ritrovi a sorriderti in faccia, con una gran forza e con una precarietà oltre il tempo, che ti piega le domande./Sono le parole di mio padre./Ultime parole in una Poesia.
[…]
Quando piove io penso a te amara terra mia/agli occhi di mio padre, al sorriso di mia madre, a quello del mio amore/alle radici rosse che in mezzo alla terra del Sud/guizzano come serpenti e ti mordono il cuore./Sono andato lontano, da me da te.»

Francesco Aprile