La rubrica letteraria online di Salentoinlinea è lieta di accogliere fra le proprie pagine la poesia in dodici frammenti, inediti, "Prime Ferite" di Stefano Zuccalà.
Un linguaggio che è autentico e reale, che ha il sapore della modernità, il tempo di una canzone. Perché Stefano Zuccalà è anche autore di canzoni. E se la poesia è sempre stata ritmo, in questo caso, sa giocare con le note. In maniera autentica. Disinvolta. Il passo breve di un respiro, la decisione della pagina, la fermezza dell'inchiostro.
Scorrere le piaghe della vita, delle giornate troppo corte, troppo lunghe, sempre troppo. Qualcosa. E poi. Aderire al linguaggio che forma la cultura, la società, è un aderire alle problematiche che ci circondano. Un sentire profondo. A tratti acuto. Del verbo come matrice dello scandaglio umano.(Francesco Aprile)
Stefano Zuccalà
PRIME FERITE
***
Rubo i colori
che non mi hanno mai avuto.
Sconto le promesse
che ho fatto e mantenuto.
Ho le linee delle mani
che si mischiano e fondono
per non dovere valutare
la durata di una vita
virata al silenzio e al terremoto.
Ho le tasche sicure
come gabbie di ricordi che battono
la testa sul ferro – sangue a secchiate per
emorragie di stronzate.
L’ho capito stanotte.
Sono uno sporco davanzale
che non crede nella pioggia
nemmeno quando scoppia il temporale.
***
Questa vita
rincoglionita
circondata da muri
dai desideri degli altri.
Questa distanza tra le mani.
La notte sogno
le mie scarpe spaccate
l’impermeabile bucato dal vento
i miei occhi erosi
dagli sguardi di un tempo.
Il giorno sogno
l’arrivo della notte
di un sonno pesante
senza eleganza
abbattuto come un tronco caduto.
Anche quando loro
continuano a scherzare
quando ritaglio un sorriso
quando mostro le viscere
lo scherzo di natura
conosco la menzogna
l’assenza di salvezza.
Vedo i visi intagliati
nei nervi a fior di pelle
la linea durissima del collo
la fatica delle ciglia
e mi accorgo
che tutto è un tentativo.
***
Le prime ferite
hanno nomi e cognomi.
Quelle successive
sono deboli riverberi
di croste non convinte
di aver chiuso una pelle
il patto ultimativo
con un graffio remoto.
Ma le prime ferite
hanno giudici e dossier
aule ed ergastoli.
Le prime ferite
hanno dato la misura
del ponte saltato
del moto dei globuli
dei colpi nel cervello.
***
Mi raccontava di avere
il fango nel cuore.
Ogni battito – diceva
è un tonfo nel viscido.
Io già esperto di pantani
lasciavo scivolare ogni parola
e lasciavo che ogni suo movimento
dallo zigomo al braccio
alla gamba accavallata
mi insinuasse il dubbio certo
di un finto martirio.
Le piaceva immaginare
le piaceva perorare la causa
di un’estrema santità.
La vita per lei
era un chiodo di vergogna
da avvitare nella pancia.
***
Appena sveglio ho trovato
quella macchia di sangue.
Mi ha raccontato di un nome
incrostato nell’angolo del corridoio
perché ogni tragitto
si risolve in un ricordo senza passi.
Ho incominciato a ridere
prima che facesse giorno
ho continuato a ridere
mentre vestivo il mio automa
il mio trono di gambe
davanti allo specchio.
Quella macchia mi perseguita
come un vento fastidioso
tiepido
mi inchioda alla eco del morso
che ho tentato per anni.
Con i denti a fingere la lama
l’aggancio
incastonati tra il plasma e la bava
a illudere la presenza
il dolore inflitto che annoda
il dolore inflitto che lega.
***
Hai stretto le dita.
Hai tentato una strada.
Hai fondato la notte.
Adesso non resta che la cenere
e il pugno ammainato nel cassetto.
Il desiderio di non capire
niente che non sia
un ultimo urlo
con le braccia cacciate
nella sacca vuota delle scuse.
***
Ci sono notti elette
da una folla di residui.
Da una stanza lontana puoi sentire il dolore
di lamiere che ancora
volano per le strade.
E sembra tardissimo.
Nella teca del petto hai raccolti i colori
e le ultime parole che ti restano
prima dell’ennesima resa
ai missili del sonno.
Schermi fluorescenti
mantengono equilibri di silenzio e rumore.
Non parli che con le mani.
Quante gambe senza forza avvolte in lenzuola
che sanno la vaghezza del ricordo.
La memoria precisa
ha ceduto sotto il tonfo della quiete.
Confonde i profili e così
impara a resistere.
***
Devo raccogliere i cocci
e lanciarli agli sconosciuti
per farmi sentire.
Devo raccogliere i cocci
e invece ci cammino
di sopra mi spacco
la pelle degli stivali
ma è pelle lo stesso
è pelle
la mia.
Mi esercito al controllo
del dolore col viso
trattengo gli zigomi
raggelo la bocca.
Devo raccogliere i cocci
e invece li compongo
in mosaici assassini
spostandoli piano
a passi lentissimi
a tocchi di espiazione.
***
Si affollano i dettagli
dei nostri resoconti.
Non possiamo ritrattare
sull’ultima versione
controfirmata di una vita.
Siamo sicuri di noi
di esserci stati
di avere detto
di avere fatto
conosciamo l’esattezza
di un nome di luogo
di una data impressa
a marchio di infamia.
Non possiamo dimenticare
non possiamo smetterci
abbandonarci sul divano
di un senso smemorato.
Siamo sicuri di tutto
di avere abbracciato
di avere ucciso.
***
Può iniziarsi una guerra
con vestiti stirati
per il gusto di vedere
brandelli di lino
volare e cadere.
Può iniziarsi una guerra
con sorrisi inamidati
e neanche una supplica
che qualcosa ci fermi
che qualcosa trattenga i fucili.
Questa pace è tesa
come un cavo di metallo
che attraversa il deserto.
Questa pace è finta.
***
Conosco la vita
il pretesto la mano
tesa sulla punta di uno sguardo
che chiede di esistere.
Conosco i tuoi guasti
ed i miei
la bocca del dolore
il buco dell’assenza
la fronte di ogni notte
le sue rughe profonde.
C’è una donna bellissima
c’è il niente di un futuro
c’è la gioia
la stanchezza
c’è tutto questo.
Conosco la vita
il pretesto di un culo
conosco questa strada
che lei percorre con i sandali
e una gonna colorata
intrisa di nomi.
***
Poche storie.
Esserci vuol dire
giudicarsi e giudicare
le posture ed i caratteri
il sangue ed il suo ritmo
ciò che dici e ciò che fai
ciò che dicono e che fanno.
Non esistono due nomi
uguali non esiste una condanna
simile alla tua
simile alla mia.
Ogni faccia è una croce
un modo della guerra.
Ogni faccia è assestata
dai chiodi degli occhi
bloccata
fissata
su una realtà imprecisa.