Si può scrivere con un numero sconfinato di parole. E mai raggiungere l'esito finale. Voluto. Risoluto. Il sorgere del sole al calare del sipario. Era come un invito, tacito, scritto fra le righe della poetica di Teresa Lutri. Numero due del movimento New Page di Francesco Saverio Dòdaro.
La scrittura come lacerazione estrema, finale, di una frattura insanabile che ci allontana dal mondo.
Così leggo. Mi ci leggo.

«Abbiamo guardato oltre i vetri./Appannati. Da respiri complicati./Abbiamo sgretolato i nostri corpi/rotolanti. Sui sassi. Degli altri./Abbiamo indovinato i nomi di quelle/terre. »

E così, fra queste parole, come pietre che male si adattano al terreno sottostante, anche Iggy Pop avrebbe detto così, sussurrando, poi, "I'm the passenger".
Sempre insanabile la copertura del cielo. Per i nostri occhi non basta più.

«Capire. Muoversi. Guarire.»

Nel passo tremolante che si fa danza. Curva e minimale al senso stretto delle parole, veloci, che aderiscono all'incedere, scottante, di una e più visioni che ci attraversano nel momento della lettura come infinite terre di luce. Bruciante. Sfavillare autentico della nostra tensione all'estraneità del contemporaneo. Così. Mi ci leggo. Negli sguardi che si incrociano per strada. Avviliti davanti alla sconfitta, ultima, del vivere stesso.
Come ieri. Il ritorno del ritorno. Sentire del non sentire. Per non sentire. La consapevolezza, nostalgica, del tempo che scorre. Come flusso ininterrotto di un’esperienza di vita. Come flusso ininterrotto di parole, in numero sconfinato, che graficamente mai sfiora l’infinito, ma in numero di cento, affonda, affronta, lo svolgersi disincantato dei giorni, di ora in ora, nell’apertura selvaggia di cui ogni parola è forza e voce. Di un giorno. Sempre uno. In parole. In numero di cento. In un giorno come traslazione di una vita intera. E chiede. E ruba. Spazi e tempi in numero non di cento, ma di una vita. E scrive «E chiuditi fuori. Grazie».

«Insistentemente. Insiste./Ignorando ogni bandiera bianca. Ogni/arresa gli pare un invito.»

A sconvolgere. L’entrata. Come un uragano, Ieri, una parola, una sola parola, la cadenza di un passo attento a non chiedere permesso. Di un passo. Ieri. Ma è ieri solo una parola. Perché «Ieri, il fiore pallido!...ieri, la roccia tetra/ che, gigante, si alzava, e che ha corroso il flutto!/ ieri, un sole morto! Una gloria nell’ombra! Ieri!...che fu mia vita, è solo una parola!» [S. Mallarmé, Tutte le poesie, Newton Compton Editori, Roma, 2008, p. 43].

Perché nel continuo flusso e riflusso di ieri che bussa ininterrottamente alle porte dell’io e dell’oggi, il verso tende a sconsacrare un culto nostalgico del niente, perché è niente il giorno che non c’è, e non si può afferrare. Violenta con forza le lancette dell’orologio, in ogni minima parte, ore minuti secondi. Afferra. La consapevolezza che Ieri è solo una parola ed il tempo che si staglia nella vita è già domani, svolgimento filmico sempre in movimento. Traslazione di una vita intera. «Chiuditi fuori grazie.»
E caliamo il sipario, prima o poi, su questo trasalire dell’anima. Come gocce di ieri da cacciare, perché anche oggi è già domani.

Francesco Aprile