La sensazione era quella, costante, di poter abbreviare il percorso, ma la strada non prometteva nulla di buono.
Così, Yukìo, voltandosi verso di me, disse - Riusciresti a contare le distanze fra passi e passi? C'è tutto lo spazio di un respiro.
Così dicendo riprese a guardare nel vuoto, oltre il finestrino, dove solo il suo sguardo poteva posarsi.
Ricordo ancora quando, da piccoli, Yukìo inseguiva il suo aquilone nella speranza di poterlo raggiungere nel cielo.
Mi raccontava sempre di una palude. Me ne parlava come fosse un posto magico. Per lei era una vera ossessione. Quel posto le era rimasto impresso sin da bambina. Di quella volta, Yukìo, non ricorda nulla, se non la sensazione di uno sciogliersi tenue della terra e del cielo, ritrovarsi come in un dipinto, sentire la propria pelle come una tempera essiccata al sole e guardarsi illuminati da colori particolari, densi di vita.
Da sempre, costernato, la guardavo con ammirazione. Ogni capitolo della mia vita si apriva e si chiudeva con lei e la storia della palude, il ricordo di lei che inseguiva il suo aquilone. Il cielo che, per lei, aveva parole soffici come i sogni e le speranze di un bambino. Il cielo che, per lei, trovava tutto il tempo di una vita.
La strada sembrava non finire mai, ne ero infastidito. Iniziavo a pensare al fatto che, probabilmente, Yukìo avesse sognato quel posto. Probabilmente non esisteva nessuna palude dove cielo e terra si sciolgono e mischiano come colori lungo la superficie di una tela.
Pur non voltandosi mai verso di me, pur mantenendo lo sguardo fisso oltre il finestrino, Yukìo sentiva il mio esser nervoso ed infastidito, ma non la turbava. Di tanto in tanto, questo, la portava a reindirizzare le sue parole verso di me, senza concedermi la possibilità di uno sguardo che, in quella situazione di strada interminabile, sarebbe potuto essere più che confortante.
Fu così che le sue parole, indirizzate allo spazio del finestrino, rimbalzavano sulla superficie trasparente del vetro per arrivare a me, destinazione ultima senza ritorno.
Diceva - Riesci a sentire lo sciabordio delle foglie, là, sulla montagna? È tutto così a portata di mano che, noi, non sentiamo nulla.
La mia speranza nella presenza di Yukìo iniziava a vacillare. Le mie certezze erano tutte le mie incertezze. Nello spazio breve di uno sguardo lanciato a monte delle mie sensazioni potevo scorgere la mia incredulità e l'idea di ritrovarmi da solo nel bel mezzo della mia pazzia.
Di tanto in tanto. Mi voltavo verso di lei. Mentre ero alla guida. Lanciavo uno sguardo al di là delle mie perplessità credendo di trovare nel suo sguardo posato sul finestrino - la forza. la decisione. la determinazione. - il respiro adatto per intraprendere, una volta arrivati a destinazione, il mio cammino nella determinante andatura di un passo asincrono, dove poter trovare lo spazio necessario all'allestimento dei pensieri, ora vacillanti, come in fuga verso un increspato di onde. L'elegante dissolversi della schiuma nell'infrangersi del mare.
Poi. Come sempre - un voltarsi di lei - come uno spasmo. Semplice. Veloce. Deciso. Un flash dalla forza d'urto pari a quella di mille anni di storia dell'uomo.
Diceva. È come un soffio di vento. Fra i capelli, sulla nuca. A tagliare aria e orecchi, come se questi fossero in grado di astrarsi, dissolversi a metà fra l'orizzonte ed il reale, e sfumare il nostro ascolto con le parole dell'indicibile.
Poi nulla. Come sempre. Non mi restava che, per chilometri e chilometri, il conforto, sempre più debole, dell'intravedere, con la coda dell'occhio, lo spazio tenue dei capelli corti - mai realmente distinti da un castano troppo chiaro ed un biondo dal sapore irreale del nostro tempo bambino - il continuo ciondolare del ciuffo sulla fronte, ed il regolare movimento delle mani a raccogliere ciocche lisce - penetranti come raggi di sole. la lenta disarticolante eleganza del niente - l'azzurro degli occhi che a dire il vero nascondevano un po' lo specchio del mondo ed i suoi punti di vista, il naso, all'insù, stabiliva - forse - quell'eterno legame fra lei ed il cielo, quella sua impossibilità di stabilire un contatto reale col peso gravitazionale che ci tiene stretti al mondo.
Così. Voltandosi per l'ultima volta. Disse. Visto? Ormai siamo arrivati. È solo questo. Il punto. La distanza che separa le mani dal nostro ascolto, ci nega alla percezione dell'esistere.
E mi chiedevo come mai non avessi visto. sentito. nulla. Che forse è il nulla il nesso, lo spazio libero, preposto al niente, fra le mani e l'ascolto. A mani giunte, mangiucchiavo parole - fra uno sguardo e l'altro. a ricercare il senso stretto dell'ascoltare di Yukìo - e poi fu niente. Che mi accorsi che lei non c'era, sul sedile accanto al mio. Che in quel suo tendersi al cielo. Era forse il cielo stesso.
Francesco Aprile
21/02/2010
Così, Yukìo, voltandosi verso di me, disse - Riusciresti a contare le distanze fra passi e passi? C'è tutto lo spazio di un respiro.
Così dicendo riprese a guardare nel vuoto, oltre il finestrino, dove solo il suo sguardo poteva posarsi.
Ricordo ancora quando, da piccoli, Yukìo inseguiva il suo aquilone nella speranza di poterlo raggiungere nel cielo.
Mi raccontava sempre di una palude. Me ne parlava come fosse un posto magico. Per lei era una vera ossessione. Quel posto le era rimasto impresso sin da bambina. Di quella volta, Yukìo, non ricorda nulla, se non la sensazione di uno sciogliersi tenue della terra e del cielo, ritrovarsi come in un dipinto, sentire la propria pelle come una tempera essiccata al sole e guardarsi illuminati da colori particolari, densi di vita.
Da sempre, costernato, la guardavo con ammirazione. Ogni capitolo della mia vita si apriva e si chiudeva con lei e la storia della palude, il ricordo di lei che inseguiva il suo aquilone. Il cielo che, per lei, aveva parole soffici come i sogni e le speranze di un bambino. Il cielo che, per lei, trovava tutto il tempo di una vita.
La strada sembrava non finire mai, ne ero infastidito. Iniziavo a pensare al fatto che, probabilmente, Yukìo avesse sognato quel posto. Probabilmente non esisteva nessuna palude dove cielo e terra si sciolgono e mischiano come colori lungo la superficie di una tela.
Pur non voltandosi mai verso di me, pur mantenendo lo sguardo fisso oltre il finestrino, Yukìo sentiva il mio esser nervoso ed infastidito, ma non la turbava. Di tanto in tanto, questo, la portava a reindirizzare le sue parole verso di me, senza concedermi la possibilità di uno sguardo che, in quella situazione di strada interminabile, sarebbe potuto essere più che confortante.
Fu così che le sue parole, indirizzate allo spazio del finestrino, rimbalzavano sulla superficie trasparente del vetro per arrivare a me, destinazione ultima senza ritorno.
Diceva - Riesci a sentire lo sciabordio delle foglie, là, sulla montagna? È tutto così a portata di mano che, noi, non sentiamo nulla.
La mia speranza nella presenza di Yukìo iniziava a vacillare. Le mie certezze erano tutte le mie incertezze. Nello spazio breve di uno sguardo lanciato a monte delle mie sensazioni potevo scorgere la mia incredulità e l'idea di ritrovarmi da solo nel bel mezzo della mia pazzia.
Di tanto in tanto. Mi voltavo verso di lei. Mentre ero alla guida. Lanciavo uno sguardo al di là delle mie perplessità credendo di trovare nel suo sguardo posato sul finestrino - la forza. la decisione. la determinazione. - il respiro adatto per intraprendere, una volta arrivati a destinazione, il mio cammino nella determinante andatura di un passo asincrono, dove poter trovare lo spazio necessario all'allestimento dei pensieri, ora vacillanti, come in fuga verso un increspato di onde. L'elegante dissolversi della schiuma nell'infrangersi del mare.
Poi. Come sempre - un voltarsi di lei - come uno spasmo. Semplice. Veloce. Deciso. Un flash dalla forza d'urto pari a quella di mille anni di storia dell'uomo.
Diceva. È come un soffio di vento. Fra i capelli, sulla nuca. A tagliare aria e orecchi, come se questi fossero in grado di astrarsi, dissolversi a metà fra l'orizzonte ed il reale, e sfumare il nostro ascolto con le parole dell'indicibile.
Poi nulla. Come sempre. Non mi restava che, per chilometri e chilometri, il conforto, sempre più debole, dell'intravedere, con la coda dell'occhio, lo spazio tenue dei capelli corti - mai realmente distinti da un castano troppo chiaro ed un biondo dal sapore irreale del nostro tempo bambino - il continuo ciondolare del ciuffo sulla fronte, ed il regolare movimento delle mani a raccogliere ciocche lisce - penetranti come raggi di sole. la lenta disarticolante eleganza del niente - l'azzurro degli occhi che a dire il vero nascondevano un po' lo specchio del mondo ed i suoi punti di vista, il naso, all'insù, stabiliva - forse - quell'eterno legame fra lei ed il cielo, quella sua impossibilità di stabilire un contatto reale col peso gravitazionale che ci tiene stretti al mondo.
Così. Voltandosi per l'ultima volta. Disse. Visto? Ormai siamo arrivati. È solo questo. Il punto. La distanza che separa le mani dal nostro ascolto, ci nega alla percezione dell'esistere.
E mi chiedevo come mai non avessi visto. sentito. nulla. Che forse è il nulla il nesso, lo spazio libero, preposto al niente, fra le mani e l'ascolto. A mani giunte, mangiucchiavo parole - fra uno sguardo e l'altro. a ricercare il senso stretto dell'ascoltare di Yukìo - e poi fu niente. Che mi accorsi che lei non c'era, sul sedile accanto al mio. Che in quel suo tendersi al cielo. Era forse il cielo stesso.
Francesco Aprile
21/02/2010