Contro il fondo

di Stefano Zuccalà

È il momento in cui lui si allontana. Senza voltarsi. È il momento in cui il cappotto scivola via dai contorni tutt’attorno. Il momento in cui basterebbe una sola parola. Una parola di merda, o soltanto un cenno. Congedarsi con gentilezza, e sparire. Fare un occhiolino al primo viso che capita, e sparire. Ma non è andata così.
Le comparse stasera hanno dato davvero il meglio di sé. Durante la festa non hanno fatto altro che bere e sorridere. Ogni tanto qualche occhio è crollato di insulsaggine. Ma non importa. Non importa veramente. Il telone del circo è rimasto in piedi, come doveva. È stata una bella serata. Ogni cosa è andata come doveva, ogni sorpresa è arrivata prevedibile come una sorpresa. E allora qualcuno si chiede perché c’è una figura che si staglia contro il fondo. Una figura che scivola. Una figura che sfuma. Poco distante dalla porta. Prima della notte.
Nella musica rimasta in sottofondo c’è qualcosa di sbagliato. Qualcosa di storto. Qualcosa di sovraccarico. Mentre forse, almeno a quest’ora, il silenzio più duro dovrebbe avvolgere tutto come una gabbia metallica. Nella musica rimasta si svolgono quegli abbracci senza senso e il tentativo irrisolto di dare una stoccata finale che vada oltre tutti i proclami. Oltre tutte le chiacchiere che hanno scodinzolato lungo il perimetro della festa. Nelle pozze di sudore. Tra i colori ed i bicchieri.
È l’istante in cui vedo il suo cappotto scivolare via. L’istante in cui mi rendo conto che è come se lui nemmeno lo abitasse, quel cappotto. È come se il suo corpo fosse solo il riempitivo di qualcosa che non può far altro scomparire senza una parola o un movimento fuoriposto. Lui è solamente quella magra imbottitura. L’esattezza di un saluto che non si compie perché ogni passo che si compie è già in se stesso quasi un addio.
È l’istante in cui mi volto. E in questa figura che scompare – è andata così – vedo me stesso o ciò che vorrei imparare ad essere. Una strafottenza laterale che non ha bisogno di chiedere scusa perché ha già assorbito dentro se stessa l’idiozia di ogni cerimoniale. È l’istante in cui mi volto e penso questo.
Care comparse, non c’è niente da aggiungere. Care comparse, non c’è nulla da risolvere. Care comparse, affoghiamo in questa musica di merda e non abbiamo mai capito che un piccolo squarcio di nero sul fondo è più potente di un bengala.
Sì. Penso esattamente questo. Ed è allora che vado via senza salutare nessuno. E raggiungo quel me stesso che ho visto scomparire qualche attimo prima. E mi allontano per sempre da quel me stesso che invece resta lì. Tra le voci sgonfie ed i bicchieri quasi vuoti.
 
Foto: Le foto sono di Chiara Capoccia (
http://www.flickr.com/photos/piccolacler/)
Nel momento dell'allontanarsi.
Per capire meglio le distanze.
Per approfondirne i sensi.
Per armonizzarne le mancanze.