Passando per Capestrano,
(da il Palindromo del Tempo)


di Francesco Pasca

Parte seconda.

 
Parte prima: https://www.salentoinlinea.it/index.php?option=com_content&task=view&id=3646&Itemid=66
 
 
 
Un lungo e tortuoso percorso che si addentrava nel fitto fogliame di alberi di abete ed arbusti, poi sfociato in un ampio spazio all'interno del quale, in posizione depressa, si estendeva l'Oratorium. La sua abside era solcata dalle solite feritoie strette e strombate rivolte ad Oriente. In alto, come a sottolinearne il cielo al quale si opponeva, era la presenza incastonata ed apparentemente apposta con noncuranza di due rosette.
Sette petali la prima e, più in alto, con due ordini sovrapposti di cinque e dieci la seconda.
 Ritornai al mio ragionare. La prima rappresentava l’immagine della “stella” mattutina o Lucifero-Venere,  quella che appare splendente alle prime luci dell’alba o quella vespertina di Espero-Venere.
Potrebbe essere la Mia “REGINA AUSTRI”?
La seconda, a chi apparterrebbe?  Mi domandavo. Non è forse Giove?
Ero certo che attribuissero enorme importanza all'apparizione della “stella” del mattino ritenendola corrispondente con la levata eliaca dopo la congiunzione inferiore. Così come, in altrettanta considerazione era tenuta la “stella” della sera perché corrispondente con levata eliaca dopo la congiunzione superiore.
In quell’istante Alber(t)o mi rammentava quella particolare posizione di Venere e Giove, luminosissimi nel cielo Aquilano ed accompagnati dalla costellazione dell’Aquila in Altair protesa ad Occidente ed affiancata dal Capricorno in quell’Equinozio d’autunno nel Settembre dell’anno mille.
La stessa congiunzione era apparsa la sera del 29 novembre del 2008 alle ore 17:16,57. Così, con la stessa attenzione, L’Alber(t)o sottolineava l’erronea attribuzione di stella a Venere come a Giove. Ne spiegava il motivo giustificandone la loro presenza come variabili nella posizione  e visibili solo in periodi non ricorrenti con scansioni regolari.
 La più relativamente prossima di quelle congiunzioni si era manifestata nel 1949 del 3 dicembre alle ore 18:35,12. Ed ancora più recentemente quel 21 febbraio 1998. Nel continuare a ricordarmi quel transito di Venere, in me si accendeva l’altrettanta certezza segnata dalle rivoluzioni di Venere i cui 29211,11 giorni avvengono da tempi infiniti dopo tredici di quest’ultime. (224.701 x 13 = 2911.11)
Alber(t)o era lì e mi descriveva la morte annuale della natura e  l’inversione di polarità delle forze cosmiche accompagnata dalla rotazione simbolica della ruota magica del SATOR.
Raccontava di quando la luce del mondo declina, di quando l’uomo inizia a percepire se stesso come portatore di una luce invisibile, non soggetta a tramonto.
Tutto questo accadeva in quell’equinozio di autunno celebrando l’elemento alchemico del Ferro dove gli  Dei benedicono i  progetti ostinatamente determinati  alla formazione del sé.
E’ sempre Alber(t)o che cantilenava ed io ascoltavo.
Erano le dee Madri, Grandi Madri, le Mater Matuta patrone di fecondità legate alla luna; così come erano le loro celebrazioni che s’univano in coro a descrivere la carola danzante col nome di:
Carmentalia    - undici e quindici di gennaio
Matronalia    - primo marzo
Liberalia        - diciassette marzo
Veneralia        - primo aprile
Matralia        - undici di giugno
e poi ancora della festa della Fortuna Muliebris del sei di luglio e del primo dicembre.
In particolare parlava del Matralia e di quell'undici di giugno a lui così vicino perché coincidente con il suo giorno di nascita.
Ricordava come, da un semplice calcolo, quello del periodo trascorso tra il Liberalia del diciassette marzo e il Mastralia dell’undici giugno, ci si potesse ricondurre ad un evento di 281 giorni, quaranta settimane, tante quante erano sufficienti per il tempo della gravidanza e riconfermare lo stretto legame astrale a quel ritmo biologico.
Parlava del ciclo di Venere, noto ai Maya e agli Inca e ne recitava il suo spazio di esistenza con la presenza del Sator come probabile somma di calendario lunare-venusiano così come voluto da Pantaleone nel descriversi con l’ottava icona della cosmogenesi otrantina, nonché solare e, così come, la loro concordanza con gli eclissi lunari, ne sottolineava, di ciò, la concomitanza con le comparse di Venere nel cielo.
Mi leggeva Ovidio (i fasti, 3, 459-516). In particolare i versi dal 509 al 516.
La storia di Bacco e Arianna diventava la danza delle parole su quel quintetto di pietra capovolto del ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR:
« […] L’abbraccia e con i baci le terge le lacrime e “Andiamo,
le dice, tutt’e due insieme su nel cielo!
Tu che mi sei congiunta di letto unirai il tuo nome
Al mio e, trasformata, Libera sarai detta.
Farò che del tuo serto resti con te la memoria:
Venere da Vulcano l’ottenne e tu da lei.”
Detto fatto, le nove gemme si mutano in astri: ora quel serto d’oro splende per nove stelle. »
Fu così che Alber(t)o raccontava della nascita della Corona Boreale, la costellazione, o di una delle costellazioni, che segna l’ingresso della primavera e stava lì ad indicare in quel blocco lapideo incastonato sul lato Sud con i quattro archi.
Nel quarto di quegli archi, chiare e leggibili le nove stelle.
Ora è anche Thea a rammentare e a sottolinearmi quell’aver concesso l’I(DEA) all’inizio del mio percorso.
 Il possedere quel gomitolo di filo di Tempo da sciogliere passo dopo passo, come già giovane Tempo, mi imponeva a seguirlo ora avanzando, ora seguendo a ritroso le tracce di quelle consonanti e vocali. In quel dedalo di parole su pietra, il mostro da “abbattere”, svelare, rimaneva quel PASCA già rimpicciolito da Pantaleone così come gli era stato raccontato dalle vicende di Marta e Maria di Betania.
L’albero della Vita si disegnava sempre più distintamente, lontano da quel chilometro mille, col dedalo dei suoi rami sulle pietre rovesce di S. Pietro ad Oratorium in territorio di Capestrano.
Quell’albero, frammenti di minuscole pietre, prendeva consistenza di cielo ed attendeva di essere svelato.
Le immagini, che più di altre si rincorrevano come se avessero iniziato un loro gioco a rimpiattino, a nascondersi festose, erano, oltre alle stelle-rosette di cui ne avevo in qualche modo individuato il loro significato, quelle delle quattro arcate. Sebbene ne annusassi una loro supposta appartenenza ad un Tempo quadripartito nella scansione di autunno, inverno, primavera, estate, la sola appartenenza non ne restituiva l’opportuna giustizia alle mie, ancora vaghe, supposizioni. Quella scansione individuata, non mi era stata ancora resa accessibile all’individuazione della mappa celeste o a quelle stelle ad essa corrispondente.
Ecco allora ricorrere al mio cielo, quello osservato nelle serate fredde d’inverno, in quelle molto più tiepide primaverili, in quelle afose d’estate e fresche d’autunno.
Costellazioni perennemente rincorse dal Tempo e segnate magicamente da impulsi sospesi in migliaia di anni luce.
Distanze imprendibili fisicamente ma magicamente catturate come quei fili colorati che mi stavano intorno, le ritrovavo imbrigliate dalla mia fantasia.
Quelle stelle prendevano nome. La forma, percorsa da rette, disegnava la loro presenza assunta  su improbabili piani e ne delimitava i contorni.
L’apparire di quei segni ora prendevano il nome di Equinozi e Solstizi.
Le celtiche erano le stesse che apparivano come horror vacui nel palindromo di Pantaleone. Quello che avevo individuato come racemi, strani frutti, altro non erano che il riferimento alla vendemmia settembrina e quindi ad una mappa celeste di un equinozio d’autunno.
Conoscevo il significato simbolico attribuito a quei racemi nella paleocristianità ma, in quel contesto, aveva da dire o da aggiungere qualcos’altro, certamente più mirato a quel contesto in cui era stato inserito.
Tutto, con il trascorrere del tempo, prendeva lentamente il suo posto. Quell’Equinizio segnato con la presenza sul decumano d’Oriente e d’Occidente, rispettivamente con la presenza delle costellazioni dell’Aquila, Cigno, Lira, Ercole e Serpente, con Giove nel Sagittario, diventava l’equilibrio del mio Tempo. Così come sul cardo, era proprio il Leone a dominare con Ceres ed ancora Marte, Venere, Saturno e Mercurio a Sud-Ovest nel segno della Vergine.
Ed ancora, a completare la mia visione, segnavo, scorrevo il mio segno con una linea retta che dalla Stella Polare percorrendo le Puntatrici dell'Orsa Maggiore, Dubhe e Merak, mi portava al cospetto della quinta costellazione dello zodiaco. Quel Leone, da me identificato dalla falce della sua criniera e da Regolo, ne esaltava ancor più la sua lucentezza. Ora è Dubhe, [a] Ursae majoris ad essere una gigante gialla da me così vicina ma distante 75 anni luce. E poi ancora Merak, [ b] Ursae majoris un’altra stella bianca anch’essa così distante ed uguale a quella dei miei anni, 62 anni luce.
Questo meraviglioso intreccio di linee rievocanti le ruote posteriori del Grande Carro, divenivano segni di indici puntati in direzione della Stella Polare. Quella fiera, sorniona nel cielo di dicembre diveniva una delle più grandi figure della mia volta celeste e quell'immagine m’accendeva l'idea della sua grande forza rivolta ad occidente.
A cavalcioni del mio Leone, mi soccorreva Thea nel ricordarmi della sua posizione primaria quando le costellazioni furono create. Quel solstizio d'estate era la testimonianza della suprema vittoria della luce sulle forze delle tenebre.
Già nel mio precedente racconto avevo dato notizia della sua posizione a causa della precessione degli Equinozi e a quel suo perdersi in favore del Cancro prima e dei Gemelli poi.
Intanto, continuavo a raccontargli di quella semplice operazione; 364:12=30,333. Ma quei resti, quel rincorrersi del numero tre all’infinito, condizionava qualsiasi risultato d’arrotondamento.