La comunicazione. Il pubblicitario. Assuefazione.  Stordimento. Immagine. Concedersi all’atto inconscio del plasmare. La pubblicità irrompe nei sistemi della comunicazione. Ne diventa parte a sé. Coinvolge. Attraverso l’accumulo. La rifrazione dei significati. I rimandi all’intangibile specchio sociale. Il prodotto non è, in sé, l’oggetto che la pubblicità propone come principale. Il rimando è il fine. L’associazione del prodotto ad uno schema sociale affermato, vincente, riconosciuto. Ad uno standard. Così, se il prodotto è associato ad uno schema reale vincente, il prodotto è esso stesso vincente. Il prodotto diventa, non più specchio del reale, ma reale stesso e genera visioni. Attese. Speranze. Illusioni. Il prodotto è il mondo reale. In questo contesto socio-culturale in cui il mondo è solo un feticcio, uno sfondo illusorio, il reale è il prodotto, la merce, l’attenzione si sposta. Così si manifesta New Page. Nelle vetrine. In quella piazza comunicazionale del terzo millennio che accoglie la deriva sociale della perdita. Lo svuotamento. Che cancella, svilisce i simboli, vecchi, occultati da polvere e slogan. Le pubblicità sulle impalcature dei nostri monumenti diroccati. Abbandonati. Questo restauro è offerto da. La piazza è nuda. Cupa. Perso deserto che è di transito. Le piazze, oggi, non sono di nessuno. Le vetrine, oggi, sono della gente. Lì è l’incontro. Lo sguardo. Il dove. Si pensi alle proteste studentesche del 2010, da poco concluso, che si sono realizzate non come presa della piazza, ma del monumento. La piazza è, infatti, luogo di transito. Il monumento – disgregato simbolo dell’abbandono sociale – l’arrivo. Oppure, sempre più spesso, non più il monumento, ma la distruzione della vetrina. Delle vetrine. Delle attese perse. Mai recuperate. Di quelle promesse finte. Vuote. La protesta si rivolta contro se stessa. Si aggira. Si avvolge. Si contorce. E sfocia contro il prodotto. Contro il simbolo. È la morte della piazza, dell’incontro. Si pensi alle proteste dei lavoratori. Non più la piazza. Ora una gru, ora l’Asinara. Il luogo dismesso. Qui, le parole di Francesco Saverio Dòdaro che ribadiva «Il cantastorie del terzo millennio non è nelle piazze, ma nelle vetrine». New Page – Narrativa in store, movimento letterario fondato, appunto, da Francesco Saverio Dòdaro, si inserisce in questo scenario, catturando la piazza del terzo millennio, la vetrina, conferendole una nuova dimensione, un nuovo spazio comunicazionale – quello dei romanzi in cento parole – che, sulle regole della comunicazione pubblicitaria, rimandano, associano, lo sguardo del passante, del lettore occasionale, all’idea culturale, come modello mai sopito, che emerge e genera la vetrina che trasmette il messaggio e si fa messaggio. The medium is the message – Marshall Mcluhan. Così lo sguardo, l’attenzione, sono catturati da una richiesta. Perché New Page è una richiesta d’ascolto alla società. Al passaggio. Alla voce del cantastorie. Delle parole. Svuotate fino all’anima, ormai private di spazio e tempo, svalutate. Il concetto culturale della parola soffre d’inflazione, d’abbassamento del reale valore d’uso che, nella vetrina, cerca una nuova vita, una nuova verginità, una rinascita nel terzo millennio in store. La parola, così, si cuce addosso – nel romanzo in store di Francesco Saverio Dòdaro – i sistemi della comunicazione pubblicitaria contemporanea, abbinati ad elementi propri del Concretismo per una neo narrativa concreta che è attuazione di tutta una storia fatta di ibridazioni concettuali e testuali della resa grafica della parola, del respiro del testo, di una punteggiatura che Dòdaro sintetizza, oggi, nell’assenza stessa della punteggiatura, per una apoteosi del suono ritmato dall’unica nota, dallo spartito di una vita, che è il battito del cuore, il battito materno, a cui lo stesso ha annidato la ritmicità del testo nel 1976 fondando lo storico Movimento di Arte Genetica,  individuando l’arte come linguaggio del lutto, per la separazione, lacerazione, la manque à être lacaniana, del bambino dalla madre. Annidando nell’amore la parola che «tramava e tremava l’amore il suo dolore d’amore sulla scena d’amore» dove il suono è ripetizione e la ripetizione è ibridazione. Abbattimento di confini strutturali del testo, di barriere, di confini, di elementi castranti che causano dispersione, lotte, lotte intestine. Lotte. Lotte. Lotte d’amore. Dove narrativa si nutre di schemi e temi e elementi propri della poiesi e viceversa e ancora, ancora, narrativa che si ibrida col teatro, con la poesia che entra nel teatro e viceversa, in un continuo gioco che incendia la scena, i writers «sulle candide quinte [...] a urlare l’arbitrio e la violenza». Lungo le vie di un testo che si modella allo scorrere sonoro, che danza, e premia quello che Adorno (citato dallo stesso Dòdaro in un suo intervento sull’apparato pausativo tenuto la sera del 2 gennaio 2011 presso il Fondo Verri di Lecce ed apparso, poi, sulle pagine di Paese Nuovo) definiva così «Ogni segno accuratamente evitato è una riverenza che la scrittura fa al suono», ed i sistemi della comunicazione entrano in gioco, a trivellare, mitragliare l’essenza dello sguardo che si posa stranito sulla vetrina e le parole della protesta Del suono. Del verso. Del verbo. Delle urla. Urla. Urla. Urla d’amore.

Francesco Aprile