Buio, macchia di inchiostro nero senza contorni.
Una fragorosa risata squarcia la tela del silenzio. Apro gli occhi e dal soffitto vengono giù schegge di luce, vorticano nell’aria rarefatta e poi fiacche giacciono al suolo come tizzoni ancora incandescenti. Salgono effluvi di colore, per dare un volto a tutto ciò che mi circonda.
S’odono ora scaffalature crepitanti, ricovero di stonati tarli; poi un respiro profondo, due, e finalmente un tonfo, seguito da un inquietante gracidare di artritiche pagine; un attimo di quiete e subito dopo un urlo di dolore, che lentamente sfuma nel silenzio.
Ripesco dalle mie putride interiora quella risata che prima avevo inavvertitamente inghiottito, preso com’ero dalla fobia di non farcela a portarmi in avanti quel tanto che basta per sentire il peso del vuoto sul dorso e poi lasciarsi andare, finalmente liberi.
Sono libero, respiro. Un brivido mi percuote, ho freddo. Eppure sorrido pensando che sia la libertà ora a irrorare, come sangue gelido, il mio corpo vizzo. Rannicchiato, aggrappato alla mia inseparabile coperta, cerco riparo e dallo scricchiolio dei miei consunti nervi sento di non avere più l’età per ardimentose imprese.
Ancora una volta è il silenzio a scuotermi. Apro gli occhi e vedo un bocciolo di materia rosea davanti a me. Mi ritraggo impaurito: quello che un attimo prima credevo impossibile, ora è realtà. Il bocciolo si schiude in due identici cocci, due mani, che facendo leva sul freddo e ruvido pavimento della biblioteca impediscono alla mia testa di schiantarsi per terra. La coperta scivola via fluttuando su inesplorati contorni carnali, espone alla luce ridicole nudità e per la prima volta si libera di me, ostentandomi compiaciuta al mondo.
Porto lo sguardo dal mio membro flaccido allo scaffale di fronte; salgo velocemente i ripiani, verso l’alto, sino all’unico spazio vuoto, per contemplare estasiato la mia vittoria. Io, misero libercolo, finalmente questa notte fuggirò dal mio lettore. Ora che ho un cuore, due mani e due piedi, un volto e un cervello, ora sono libero. Non c’è più posto tra gli scaffali per i libri di poesia, relitti di una società che ha smesso di emozionarsi. No, vado avanti, nessun rimorso mi fermerà questa volta.
Il mio vecchio si è di nuovo addormentato in poltrona leggendo chissà cosa, un romanzo, sì, forse uno di quei vaporosi e incredibilmente effimeri thriller che circolano al giorno d’oggi tra i lettori. Credo sia da imputare a loro la causa del mio smarrimento letterario. Lui continua a riposare, come un bimbo innocente, ignaro di aver condannato all’oblio e alla polvere centinaia di vecchi volumi di poesia.
Eccoli lì, relegati in cima allo scaffale, che si contendono il buco che ho lasciato, fingendo di non sentire il continuo lamento della poesia che scorre nelle loro pagine. O poveri animali da macello, attendono ogni giorno che il padrone riservi loro un po’ della sua attenzione, un misero pasto che gonfi lo stomaco e zittisca la fame, e nient’altro. Coltivano giorno dopo giorno la paura del salto, evitando così di pensare al domani, di immaginarsi prima tra l’immondizia e poi tra le fiamme.
Intanto dalla finestra i primi bagliori dell’alba si portano in tutta la stanza attraversando il mio corpo diafano. Cerco di sollevarmi da terra, ma scivolo; ci riprovo, ricado su un fianco; di nuovo, ma non ci riesco. Perché, o sante Muse? Sono stato creato a sua immagine e somiglianza, sono anch’io uomo, perché allora non ho la forza di alzarmi e scappare dal mio creatore, perché?
Piango. La luce smembra quel buio che mi ha dato il coraggio di saltare nel vuoto; lacrime invisibili stillano dal sole sulle poetiche metamorfosi, dissolvendole lentamente.
È giorno, il vecchio mi guarda, sorride, e come se nulla fosse accaduto mi piglia da terra e mi risistema in libreria. Di nuovo al punto di partenza, ancora una volta sovversivo poeta tra belanti libri di poesia.


 Michele Stursi