È sempre un gran piacere offrire un buon bicchiere di vino a un amico o a un nuovo ospite. Il rito di quest’offerta si perde nella notte dei tempi e a volte si può provare, ad immaginare quale fosse stata in età antica l’usanza che caratterizzò questa bevanda nel Salento.
L’origine del popolo salentino ha culla tra ipotetici flussi migratori di genti illiriche ed elleniche, verso il 1000 a.C. che chiamarono Messapi dal nome del loro Re. L’agricoltura dei messapi si basava sulla coltivazione di ulivi e cereali. Secondo Plinio il Vecchio, i Messapi sapevano coltivare anche la vite utilizzando forme di allevamento molto simili a quelle attuali quasi come se avessero anticipato alcune tecniche di potature. I viticultori messapici avevano, in ogni caso, come da tradizione ellenica, un’eccessiva attenzione a non far sviluppare i tralci fino al suolo e l’uso di pali di legno o di pietra come tutori di sostegno alle piante pare avessero avuto diversi riscontri tra i ritrovamenti.
Si può ripensare ai messapi come contadini di prestigio, all’interno delle loro cinte murarie, in prossimità di affluenti e terre fertili, dediti alla raccolta dell’uva precoce settembrina, utilizzando coltelli affilati a forma di roncole, dette bisbes e cesti di giunchi di palude e di macchia, più o meno come avviene oggi in alcune zone del Salento.
Il frutto raccolto si riversava in vasche di legno di ciliegio, o scolpite nella pietra viva, dove la pigiatura avveniva davvero con la prestanza dei loro piedi o con rudimentali torchi.
Con la vendemmia tardiva d’ottobre, l’antico popolo, lasciava appassire i migliori grappoli sulla pianta fino all’epoca della caduta delle sue foglie, per ottenerne un vino liquoroso di grandi qualità.
Articolate geometrie di piccole canalizzazioni scavate in prossimità dei luoghi di lavorazione, poi, convogliavano il dolce mosto in conche di raccolta, mentre la fermentazione, avveniva in grandi vasi di fresca terracotta piantati a livello del terreno il cui guscio si foderava con sostanze resinose che salvaguardavano il pregiato raccolto da agenti esterni.
Il contatto del mosto con le bucce e i processi di filtrazione, tramite rudimentali “cole”, spesso si prolungava per molte ore rendendo il succo molto scuro. La bevanda era chiarificata con sporadici travasi, e tenuto a decantare per mesi in apposite celle, prima di destinarlo all’uso. Il vino più strutturato che dimostrava buone probabilità di invecchiare era posto in anfore molto simili a quelle utilizzate per il trasporto navale.
La conservazione in crateri e anfore (guttus) era sigillata con particolari sugheri, resine, argille, pece o gesso; mentre la tavola imbandita era colma di recipienti per mescere (oinochoe), per prendere (skiphos) e per bere (kantarhos).
Di certo il vino ricavato, poi ribattezzato “merum”, dagli antichi romani, da cui “ mieru” nell’idioma salentino, doveva avere forti costituenti tanniche e polifenoliche, molto alcolico e denso, tanto che prima di berlo, si doveva annacquare o diluire con altri vini leggeri. Non si può dire che il gusto di un vino arcaico avesse la morbidezza e la rotondità di un buon Negroamaro o di un Primitivo odierno.
Come nella cultura greca, i messapi davano importanza ai “ banchetti” e il simposio a tavola nelle loro capanne di fango e paglia, durante l’autunno era un vero rito di convivialità e condivisione. Non è errato immaginare come i messapi sorseggiassero da un'unica coppa per brindare alla nuova produzione e rendere ringraziamento a Demetra Dea della fertilità.
Si può pensare che similmente alle popolazioni egeiche, i messapi dedicassero durante questo rito augurale preghiere e canti anche ad altri importanti dei come Totor, Idda e Tana.
Non mancavano in quel mediterraneo essenze profumate di mirto o lentisco e miele (prodotto nella messapia settentrionale denominata Carmina), ad raffinare le loro coppe di quel vino sciroppato di uva primigenia che si poteva accompagnare a frutta secca e selvaggina.
Questo bere, era senz’altro un magico rituale in grado di creare comunità e calore tra gli antichi commensali anzi si può dire che sia stato un linguaggio direttamente congiunto al culto del Sole, al dio Bacco e nei tempi successivi anche con il simbolismo cristiano.
La bevanda di Bacco non è solo delicatezza all’assaggio per i popoli più antichi, oggi trova riscontro in tutti i paesi del mondo. Ha sicuramente essenze salutistiche decisive per una corretta quotazione della qualità di un prodotto. “ Il vino fa buon sangue”, la popolarità di un detto moderno si riscontra con innumerevoli saggi scientifici.
Quando il vino è naturale, fa bene, ma occorre accettarlo con moderazione senza eccessi e nei limiti consigliati dalla medicina. Con le quantità raccomandate dagli esperti, questa bevanda mostra le sue ottime virtù terapeutiche con proprietà antistaminiche, antinfiammatorie e antivirali.
La scienza, oggi, ha concentrato la sua osservazione a molti costituenti del vino, quelli non alcolici, centinaia di pectine, gliceroli, polifenoli scoprendono benefici e virtù. Forse è proprio tra questi 600 composti il fascino dell’offerta di un buon vino Meridionale.
Il segreto del “merum” può essere svelato, nel vino esistono sostanze rare in natura, che derivano da foglie e radici come il resveratrolo e flavonoidi che avrebbero proprietà antiossidanti.
Sostanze che conferiscono il tipo di colore e aromi al vino avrebbero la capacità di agire sui radicali liberi o disintegrare le scorie tossiche che l’organismo produce.
Il negro amaro e il primitivo si producono oggi in terra messapica, sarebbero tra primi vitigni più coltivati in Italia; hanno una gran quantità di polifenoli che durante la vinificazione si liberano dalle bucce. Il sapore aspro tannico di queste varietà denota la quantità di polifenoli presenti e sarebbe una delle componenti più pregevoli al gusto se non eccessivo.
Il tannino è contenuto nelle bucce, nei raspi, nei vinaccioli dei vini rossi in quantità maggiori rispetto ai vini bianchi o rosati. Se poi i tannini sono nobili, non acidi o aspri, marcano il valore di questa varietà; sono quei tannini che reagiscono con l’invecchiamento, la vivacità del colore e dell’odore e la pienezza del vino.
Anche l’alcol etilico o etanolo, assunto moderatamente pare che abbia effetti sull’incremento del cosiddetto colesterolo buono ed è proprio l’elemento alcolico che conferisce rotondità, morbidezza e pastosità.
Alcoli e polifenoli quindi alleati in terra messapica, per affermare singolarità e scrupolosità delle produzioni vinicole; quella che per intenderci ha reso felice il commensale di ieri e quello di oggi.
di Mimmo Ciccarese
Tecnico agroambientale
L’origine del popolo salentino ha culla tra ipotetici flussi migratori di genti illiriche ed elleniche, verso il 1000 a.C. che chiamarono Messapi dal nome del loro Re. L’agricoltura dei messapi si basava sulla coltivazione di ulivi e cereali. Secondo Plinio il Vecchio, i Messapi sapevano coltivare anche la vite utilizzando forme di allevamento molto simili a quelle attuali quasi come se avessero anticipato alcune tecniche di potature. I viticultori messapici avevano, in ogni caso, come da tradizione ellenica, un’eccessiva attenzione a non far sviluppare i tralci fino al suolo e l’uso di pali di legno o di pietra come tutori di sostegno alle piante pare avessero avuto diversi riscontri tra i ritrovamenti.
Si può ripensare ai messapi come contadini di prestigio, all’interno delle loro cinte murarie, in prossimità di affluenti e terre fertili, dediti alla raccolta dell’uva precoce settembrina, utilizzando coltelli affilati a forma di roncole, dette bisbes e cesti di giunchi di palude e di macchia, più o meno come avviene oggi in alcune zone del Salento.
Il frutto raccolto si riversava in vasche di legno di ciliegio, o scolpite nella pietra viva, dove la pigiatura avveniva davvero con la prestanza dei loro piedi o con rudimentali torchi.
Con la vendemmia tardiva d’ottobre, l’antico popolo, lasciava appassire i migliori grappoli sulla pianta fino all’epoca della caduta delle sue foglie, per ottenerne un vino liquoroso di grandi qualità.
Articolate geometrie di piccole canalizzazioni scavate in prossimità dei luoghi di lavorazione, poi, convogliavano il dolce mosto in conche di raccolta, mentre la fermentazione, avveniva in grandi vasi di fresca terracotta piantati a livello del terreno il cui guscio si foderava con sostanze resinose che salvaguardavano il pregiato raccolto da agenti esterni.
Il contatto del mosto con le bucce e i processi di filtrazione, tramite rudimentali “cole”, spesso si prolungava per molte ore rendendo il succo molto scuro. La bevanda era chiarificata con sporadici travasi, e tenuto a decantare per mesi in apposite celle, prima di destinarlo all’uso. Il vino più strutturato che dimostrava buone probabilità di invecchiare era posto in anfore molto simili a quelle utilizzate per il trasporto navale.
La conservazione in crateri e anfore (guttus) era sigillata con particolari sugheri, resine, argille, pece o gesso; mentre la tavola imbandita era colma di recipienti per mescere (oinochoe), per prendere (skiphos) e per bere (kantarhos).
Di certo il vino ricavato, poi ribattezzato “merum”, dagli antichi romani, da cui “ mieru” nell’idioma salentino, doveva avere forti costituenti tanniche e polifenoliche, molto alcolico e denso, tanto che prima di berlo, si doveva annacquare o diluire con altri vini leggeri. Non si può dire che il gusto di un vino arcaico avesse la morbidezza e la rotondità di un buon Negroamaro o di un Primitivo odierno.
Come nella cultura greca, i messapi davano importanza ai “ banchetti” e il simposio a tavola nelle loro capanne di fango e paglia, durante l’autunno era un vero rito di convivialità e condivisione. Non è errato immaginare come i messapi sorseggiassero da un'unica coppa per brindare alla nuova produzione e rendere ringraziamento a Demetra Dea della fertilità.
Si può pensare che similmente alle popolazioni egeiche, i messapi dedicassero durante questo rito augurale preghiere e canti anche ad altri importanti dei come Totor, Idda e Tana.
Non mancavano in quel mediterraneo essenze profumate di mirto o lentisco e miele (prodotto nella messapia settentrionale denominata Carmina), ad raffinare le loro coppe di quel vino sciroppato di uva primigenia che si poteva accompagnare a frutta secca e selvaggina.
Questo bere, era senz’altro un magico rituale in grado di creare comunità e calore tra gli antichi commensali anzi si può dire che sia stato un linguaggio direttamente congiunto al culto del Sole, al dio Bacco e nei tempi successivi anche con il simbolismo cristiano.
La bevanda di Bacco non è solo delicatezza all’assaggio per i popoli più antichi, oggi trova riscontro in tutti i paesi del mondo. Ha sicuramente essenze salutistiche decisive per una corretta quotazione della qualità di un prodotto. “ Il vino fa buon sangue”, la popolarità di un detto moderno si riscontra con innumerevoli saggi scientifici.
Quando il vino è naturale, fa bene, ma occorre accettarlo con moderazione senza eccessi e nei limiti consigliati dalla medicina. Con le quantità raccomandate dagli esperti, questa bevanda mostra le sue ottime virtù terapeutiche con proprietà antistaminiche, antinfiammatorie e antivirali.
La scienza, oggi, ha concentrato la sua osservazione a molti costituenti del vino, quelli non alcolici, centinaia di pectine, gliceroli, polifenoli scoprendono benefici e virtù. Forse è proprio tra questi 600 composti il fascino dell’offerta di un buon vino Meridionale.
Il segreto del “merum” può essere svelato, nel vino esistono sostanze rare in natura, che derivano da foglie e radici come il resveratrolo e flavonoidi che avrebbero proprietà antiossidanti.
Sostanze che conferiscono il tipo di colore e aromi al vino avrebbero la capacità di agire sui radicali liberi o disintegrare le scorie tossiche che l’organismo produce.
Il negro amaro e il primitivo si producono oggi in terra messapica, sarebbero tra primi vitigni più coltivati in Italia; hanno una gran quantità di polifenoli che durante la vinificazione si liberano dalle bucce. Il sapore aspro tannico di queste varietà denota la quantità di polifenoli presenti e sarebbe una delle componenti più pregevoli al gusto se non eccessivo.
Il tannino è contenuto nelle bucce, nei raspi, nei vinaccioli dei vini rossi in quantità maggiori rispetto ai vini bianchi o rosati. Se poi i tannini sono nobili, non acidi o aspri, marcano il valore di questa varietà; sono quei tannini che reagiscono con l’invecchiamento, la vivacità del colore e dell’odore e la pienezza del vino.
Anche l’alcol etilico o etanolo, assunto moderatamente pare che abbia effetti sull’incremento del cosiddetto colesterolo buono ed è proprio l’elemento alcolico che conferisce rotondità, morbidezza e pastosità.
Alcoli e polifenoli quindi alleati in terra messapica, per affermare singolarità e scrupolosità delle produzioni vinicole; quella che per intenderci ha reso felice il commensale di ieri e quello di oggi.
di Mimmo Ciccarese
Tecnico agroambientale