Che soddisfazione sentire l’apprezzamento della First Lady per l’olio d’oliva estratto dall’ulivo secolare“Regina” offerto in adozione. Michelle Obama promotrice del progetto “Med-italian diet day” ha condiviso alcune gocce di Salento con tutte le loro proprietà salutistiche e lo valorizza tra i suoi connazionali.
La proposta di adozione ribadisce la necessità e l’urgenza di decisioni in merito alla salvaguardia degli ulivi monumentali salentini oltre a quelle già prese dalla Regione Puglia con una legge del 2007. Un parere di una commissione tecnica, l’interesse di alcune amministrazioni, associazioni di categorie, olivicoltori riconfermano all’unisono l’innata affezione verso un essenza considerabile patrimonio dell’umanità. Gli articoli della legge parlano chiaro, determinano le azioni e le idee da applicare per una serafica difesa del territorio, del paesaggio concetto già risoluto con l’articolo 9 della costituzione italiana che “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Olivi d’origine normanna, borbonica o addirittura greca, dai nomi più bizzarri, da forme e volti che si manifestano con i cicli cosmici, proiezioni di legno contorto sui tagli lasciati da secoli di potature.
Dai loro vetusti tronchi si può immaginare un urlo, una danza, un riposo, quando si sente l’energia e desiderio di ripercorrerli attraverso vie romane, ordinati muretti a secco, masserie e paiare. Radici e roccia in un entropico intreccio nella parte ipogea, imponenti chiome da migliaia di piccole drupe autunnali sulla parte epigea pronte per la tradizionale raccolta. I calaturi, così sono chiamati dai salentini, i rami produttivi e pendenti di olive invaiate pronte per la certosina brucatura sono la gioia degli olivicoltori.
È facile smarrirsi tra di essi, ritrovarsi nel mezzo dell’operosità salentina più eruditi di prima, arricchiti di un bagaglio passionale che non si ferma solo con la spremitura. L’ancestrale rito iniziatico si ripete ogni anno con la prima caduta dei frutti e i consueti segnali di fumo tra le campagne.
Effusioni d’ulivo, quindi, non semplici fuocherelli, piccole famiglie che ritornano esauste da una “giornata”di raccolta con addosso ancora il sapore del loro legno e le mani abbrunate dal nero epicarpo, le infangate scupareddrhe di saggina e gli intimi fazzoletti annodati.
Nel salento piccole lambrette si mimetizzano silenziose tra imponenti ulivi, l’ansia del coltivatore che conosce i gomiti della sua pianta e il peso del suo lento ritorno da frantumare e alleggerire dopo il tramonto al frantoio più vicino: sono figure di una comunità irresistibile a cui non si può rinunciare.
L’immagine contrasta con una società globalizzata quella che la maggior parte degli olivicoltori salentini non comprende all’istante: “cussì bbolene e cussì facimu” è ordinaria espressione di rassegnazione, quasi come si reclamasse un diritto alla resilienza, cioè a quella capacità di riadattare in poco tempo la propria natura dopo uno shock di diversa portata.
Il salento è territorio vulnerabile, sensibile ai cambiamenti climatici, dove gli ulivi si dimostrano efficaci indicatori, antenne di ricezione ed elementi della biodiversità indispensabili.
Si crea per questo, un movimento serafico di tutela, una rivoluzione gentile in cui gli stessi alberi si potrebbero rappresentare come eserciti con caratteri di forza e debolezza, la cui condivisione non è la lacerazione cellulare, ma simbolo di unione e identità.
Amicizia tra gli ulivi, semplicità, empatia, simbiosi e restituzione alla terra sono desideri comuni di migliaia di persone che attendono di aderire alla loro salvaguardia perché oggi non è solo l’olio estratto da questi monumenti ad avere i riflettori addosso, ma è il metodo con cui si riprende coscienza, autoanalisi e ritorno alla natura con la dignità di essere terrestri.
di Mimmo Ciccarese
La proposta di adozione ribadisce la necessità e l’urgenza di decisioni in merito alla salvaguardia degli ulivi monumentali salentini oltre a quelle già prese dalla Regione Puglia con una legge del 2007. Un parere di una commissione tecnica, l’interesse di alcune amministrazioni, associazioni di categorie, olivicoltori riconfermano all’unisono l’innata affezione verso un essenza considerabile patrimonio dell’umanità. Gli articoli della legge parlano chiaro, determinano le azioni e le idee da applicare per una serafica difesa del territorio, del paesaggio concetto già risoluto con l’articolo 9 della costituzione italiana che “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Olivi d’origine normanna, borbonica o addirittura greca, dai nomi più bizzarri, da forme e volti che si manifestano con i cicli cosmici, proiezioni di legno contorto sui tagli lasciati da secoli di potature.
Dai loro vetusti tronchi si può immaginare un urlo, una danza, un riposo, quando si sente l’energia e desiderio di ripercorrerli attraverso vie romane, ordinati muretti a secco, masserie e paiare. Radici e roccia in un entropico intreccio nella parte ipogea, imponenti chiome da migliaia di piccole drupe autunnali sulla parte epigea pronte per la tradizionale raccolta. I calaturi, così sono chiamati dai salentini, i rami produttivi e pendenti di olive invaiate pronte per la certosina brucatura sono la gioia degli olivicoltori.
È facile smarrirsi tra di essi, ritrovarsi nel mezzo dell’operosità salentina più eruditi di prima, arricchiti di un bagaglio passionale che non si ferma solo con la spremitura. L’ancestrale rito iniziatico si ripete ogni anno con la prima caduta dei frutti e i consueti segnali di fumo tra le campagne.
Effusioni d’ulivo, quindi, non semplici fuocherelli, piccole famiglie che ritornano esauste da una “giornata”di raccolta con addosso ancora il sapore del loro legno e le mani abbrunate dal nero epicarpo, le infangate scupareddrhe di saggina e gli intimi fazzoletti annodati.
Nel salento piccole lambrette si mimetizzano silenziose tra imponenti ulivi, l’ansia del coltivatore che conosce i gomiti della sua pianta e il peso del suo lento ritorno da frantumare e alleggerire dopo il tramonto al frantoio più vicino: sono figure di una comunità irresistibile a cui non si può rinunciare.
L’immagine contrasta con una società globalizzata quella che la maggior parte degli olivicoltori salentini non comprende all’istante: “cussì bbolene e cussì facimu” è ordinaria espressione di rassegnazione, quasi come si reclamasse un diritto alla resilienza, cioè a quella capacità di riadattare in poco tempo la propria natura dopo uno shock di diversa portata.
Il salento è territorio vulnerabile, sensibile ai cambiamenti climatici, dove gli ulivi si dimostrano efficaci indicatori, antenne di ricezione ed elementi della biodiversità indispensabili.
Si crea per questo, un movimento serafico di tutela, una rivoluzione gentile in cui gli stessi alberi si potrebbero rappresentare come eserciti con caratteri di forza e debolezza, la cui condivisione non è la lacerazione cellulare, ma simbolo di unione e identità.
Amicizia tra gli ulivi, semplicità, empatia, simbiosi e restituzione alla terra sono desideri comuni di migliaia di persone che attendono di aderire alla loro salvaguardia perché oggi non è solo l’olio estratto da questi monumenti ad avere i riflettori addosso, ma è il metodo con cui si riprende coscienza, autoanalisi e ritorno alla natura con la dignità di essere terrestri.
di Mimmo Ciccarese