A molti salentini, piace fermarsi, ogni tanto, su alcuni luoghi di confine, dove l’intensità dei toni della terra virano sugli orizzonti del mare, semplicemente per godere il calmo tragitto dei natanti sotto tramonti strabilianti. Quando attraversi grovigli di sentiero e giungi a sorpresa sulle insenature ioniche, sei pervaso dagli incessanti e repentini cambiamenti di paesaggio e spesso basta un istante per ritrovarsi a provare un insolito e piacevole effluvio salato di onde e poi magari tuffarsi tra esse. Vivacità e memoria sulle rade selvagge di Nardò, dunque, dove la memoria e l’allerta dai pirati trasuda ancora sui gradini delle torri o sulle logge delle masserie fortificate. La cortina delle torri d’avvistamento, volute da Carlo V, comprende anche la torre dell’Alto o del Salto della Capra, solido avamposto anti incursione, terminato nel 1570 in difesa dei suoi piccoli borghi rurali, oggi interessante meta per i visitatori.
Le ville costiere di Santa Caterina di Nardò o di Santa Maria al bagno ricamano i ghirigori moreschi delle sue altane per riproporre la cultura della loro influenza, mentre giù, accanto alle barche si può sempre gustare una buona specialità tipica in una delle tante locande.
Lungo i promontori rocciosi spaccati dalla litoranea, ci si cala presso le marine di Nardò per risalire poi rapidamente lo scenario mediterraneo dove, pini d’Aleppo, mirti e mucchi di macchia sono il rinfrescante e tonico preludio di un’area chiamata Porto Selvaggio.
Tale area è un parco naturale di gran prestigio dove l’odore di campanule, cisto rosso, ginestre e orchidee, qualificano i prodotti delle settecentesche masserie, residenze amichevoli di lenti movimenti che al primo crepuscolo separano i greggi di ritorno dal pascolo verso i rispettivi ovili lungo le vecchie mulattiere. Riferiscono i massari più esperti della zona, che l’antica razza di pecora moscia leccese è in via di estinzione e che grazie all’interesse di pochi che oggi continua ancora a essere allevata se pur tra mille difficoltà in attesa di sostegno e solidarietà.
È sempre un piacere immergersi tra le percezioni del Parco di Porto selvaggio e della Palude del capitano già da prima che la Puglia lo istituisse con la Legge Regionale del 15 marzo 2006.
Il parco che dalla grotta neolitica di Capelvenere nei pressi della località di Santa Caterina si estende fino alla Palude del Capitano per 1130 ettari, è il termine o l’inizio della bellissima baia di torre di sant’Isidoro premessa ridente delle accoglienti città di Porto Cesareo e Nardò.
“Uluzzo” è anche il titolo volgare della pianta che caratterizza questo territorio, appunto l’Asfodelo che insieme all’Alisso di Leuca ricopre di colori la Piana della Lea ingresso delle sue grotte carsiche già antichi ripari dei cavatori messapici e spazi di elevato valore archeologico.
Gli stretti corridoi di fiumi decantano ancora oggi reperti di colonie preistoriche e spelonche subacquee, come la grotta delle Corvine, in un singolare arcobaleno di flora e fauna marina.
All’interno del parco si possono ancora incontrare rettili come il biacco nero, il ramarro o il cervone; eleganti uccelli come la sgarza ciuffetto, la capinera o la curiosa upupa ad appagare la visita naturalistica. Un parco che si aggiunge agli altri nel Salento, in un’area vulnerabile, oggi purtroppo, soggetta a rilevanti segni di desertificazione. Si auspica adesso con la recente Legge 10 del 14 gennaio 2013 sulle aree verdi e sulla tutela degli alberi monumentali, cui le amministrazioni dovrebbero censire e rendere conto con un valido “bilancio arboreo” un maggior riguardo verso habitat e tutela della biodiversità. Uno spazio naturale, quindi, importantissimo, che potrebbe essere il prossimo cortese obiettivo di difesa per consolidare il sacrificio e lo sforzo di coloro che negli ultimi anni hanno creduto fermamente alla sua istituzione e cui si dovrebbe solo rendergli un vivo ringraziamento.

di Mimmo Ciccarese