di Mimmo Ciccarese
 
L’arte di costruire i “panari” ha il sapore di un rito agreste che inizia dalla scelta del materiale, da una trama di essenze scelte con cura e nel rispetto della natura. Immergersi nell’intimità delle macchie nella ricerca dei giunchi più plastici, quelli che assicurano il miglior risultato, impongono d’effetto anche la conoscenza profonda della sua genesi che ovviamente si può smarrire fra i secoli.
Sono pochi, ormai, i canestrai sparsi nel Salento, come sono poche e deludenti le iniziative promozionali decise per quest’attività in via d’estinzione; non valorizzare l’opera di un canestraio equivale anche a rigettare un’identità e preferire l’insana velocità dei falsi miti tecnologici a scapito di quel ritmo lento e primitivo che profuma ancora di mediterraneo.
È molto strano che questo non sia stato ancora capito da chi si elegge custode della sua terra, che dice di rianimare la civiltà rurale e poi si rintana intorpidito nei corridoi torbidi del suo potere a fare tutt’altro; eppure ci sembra quasi impossibile che una scuola o un ente pubblico non si accorga di questo.  
Lo riferiscono con la loro serafica saggezza quei canestrai, con parole che aiutano a riflettere e a sagomare meraviglie tra i vicoli dimenticati di qualche sobborgo salentino; gli stessi grinzosi artigiani che nonostante tutto, indossano con amore il loro umile tessuto a volte rassegnandosi senza pensarci poi più di tanto.
È attraverso questi ingressi socchiusi, nella penombra di verande e masserie che si può scorgere la scrittura della tradizione e l’emozione di quei piccoli consigli che t’insegnano a preferire il giunco più adatto, che ti rivelano il trucco per far scorrere meglio il raggio di canne intorno ai polloni d’ulivo per finire e ricominciare l’opera in fretta.
Occorre almeno una giornata di lavoro per costruirne uno: la mattina si raccoglie il materiale e la sera si prepara per ordirlo e spesso, mi riferiscono, non importa se il contorno ricavato non sia precisamente geometrico.
Mondare correttamente dalle foglie un rametto di mirto senza scortecciarlo, garantisce la vivacità e l’uniformità del suo colore; reciderlo con giudizio alla base del suo cespo assicura, invece, la nascita di nuovi ricacci utili per i prossimi canestri; piccoli ma importanti dettagli per documentare abilità e riguardo per gli habitat.
Rimescolare e ripartire i vinchi adeguati per i raggi che sagomeranno la perfezione e la resistenza del manufatto o decidere la giusta altezza dell’intreccio di canne sezionate, proporzionandola al diametro della sua base prova poi la grande capacità del suo autore di equilibrare tutte le forze di tensione, affinché l’arco del manico sia in grado di tenere bene il peso del suo contenuto.
Tutto questo per il canestraio ha qualcosa di prodigioso e di un’affascinante capacità di pianificare e accordare la sua esperienza ai cicli naturali delle stagioni.
Canestri, corollari di memorie e immagini, dunque, di zelo e pazienza contadina, prodotti di grande attenzione culturale sul tratto di estinguersi con un fascino da recuperare attraverso idee e progetti e perché no anche con laboratori che conducano le nuove generazioni nell’arte di realizzarli.