Apocalypse Moi, personale di pittura di Massimo Pasca, è stata inaugurata ieri, domenica 4 agosto, presso l'Imperial Town Art Space di Casarano.

 

Una oceanica disperazione simbolica

 

di Francesco Aprile

 

«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova  un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.»

Benjamin W., Tesi di filosofia della storia, in «Angelus Novus. Saggi e frammenti», Einaudi, Torino 1995, p. 80

 

Vicini all’apocalisse. C’è un disagio che attraversa tutta l’opera di Massimo Pasca. C’è forza. La forza di tentare col “gioco” dell’ironia la manipolazione semantica dei significanti. La distruzione di questi nell’approccio grafico che desta l’osservatore, lo attacca nel linguaggio dei corpi. Il corpo come rifugio dell’arte. La condizione husserliana del corpo come punto nullo dal quale partire alla conoscenza del mondo, dell’Altro come soggetto capace di una qualche esperienza che ci dona, ridona, la cifra della nostra esistenza. I tweet di Ratzinger. Il passato che viene cancellato, risucchiato nell’atomizzazione e assoggettamento dell’attore sociale rivoltato dalla transmedialità dei linguaggi ipermassificati (l’individuo conformato alle sue estensioni, ne è divorato). La morte di Dante, assassinato dal televisore. La tempesta prefigurata da Benjamin. La capacità di guardare oltre, d’intercettare stimoli e farne altri simboli. La necessità di impostare un discorso dialetticamente critico, la sua valenza politica, sociale. C’è tutto questo nell’opera di Massimo Pasca. C’è un dialogo serrato coi corpi che si dibattono in una oceanica disperazione simbolica, significante, il dominio di questi. La sessualità ed il corpo foucaultiani come forme di controllo. Lo svalutamento delle relazioni sociali, ormai troppo “social”. Il corpo è defraudato. L’incontro è cancellato. La comunicazione interrotta. Il suicida di Alan Ford grida ancora dal ponte. «Grazie. Grazie, buon giovanotto! Un po’ di calore umano fa sempre piacere ai morituri…» (Alan Ford. Il gruppo T.N.T., Max Bunker/Magnus). La vita denudata, sezionata nei flussi di desiderio, ci appare nell’opera di Massimo Pasca nella chirurgica manipolazione dei corpi, che nello sfondo apocalittico dell’inquinamento, dello sviluppo che sfrutta e violenta ad ogni costo, emergono. Ci appare, ancora, nella furia gestuale di Pollock. Nel simbolico interazionismo grafico di Haring. In un tratto particolareggiato, barocco perché composito, articolato. Nell’uso prepotente del colore. Accecante. Nel bianco e nero che chiama nell’opera il fumetto di Magnus. Nella violenza critica che ci apre al reale. Una oceanica disperazione simbolica. L’alveo infuocato dell’inferno di Dante. La pluralità delle voci. Corpi arresi. Corpi in volo. Corpi. L’esaltazione dell’incontro che nonostante tutto deve avvenire. La volontà di crederci. Di riscrivere lo scenario che gli occhi ammorba. La morte “social”. C’è un inno alla vita che grida vendetta. Lo sconfinato dibattersi dell’esistenza nel tritacarne della contemporaneità. Il surplus significante che ci parla. L’essere parlati. La manipolazione beniana dei significanti. L’ironia sovversiva dei dadaisti. Duchamp s’è dissolto nell’oceano dei simboli. S’è fatto angelo bastardo che sussurra nuvole. Santo patrono della disperazione. Urla vino. Racconta clamore.

 

«Quando parlo del tempo, è perché non è ancora
Quando parlo di un luogo, è perché è scomparso
Quando parlo di un uomo, è perché è già morto
Quando parlo del tempo, è perché ormai non è più

Parliamo quindi del mondo dal quale l’uomo è scomparso. Si tratta di sparizione, non di esaurimento, di estinzione o di sterminio. L’esaurimento delle risorse, l’estinzione delle specie sono dei processi fisici o dei fenomeni naturali. E qui sta la differenza, perché la specie umana è l’unica ad aver inventato un modo specifico di scomparire, che non ha niente a che vedere con la legge di natura. Forse addirittura un’arte della sparizione.»

Baudrillard J., Perché non è già tutto scomparso?, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 7, 8