Una leggenda chiamata “Poesia”
di Francesco Aprile, co-direttore utsanga.it
V'è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Affondare la propria origine – non necessariamente connessa alla nascita – in terra d'Otranto è destinarsi un reale-immaginario.
Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna
Che si tratti di una leggenda le cui fondamenta abitano o hanno abitato nello sgorgare delle acque “salvifiche” di una sorgente d’acqua dolce o, al contrario, il nome della leggenda stessa debba la sua origine alla principessa che, bagnandosi nelle acque della grotta, ispirava i versi dei poeti i quali, da tutto il Sud Italia, accorrevano per cantarne la bellezza, poco importa. La grotta della Poesia a Roca è il centro e l’immagine fondamentale di un Salento che un tempo è stato “dei poeti”. Dalla lunga tradizione orale, dove oggi oscuri, perché a noi sconosciuti, cantori tramandavano versi alle generazioni future, alla nascita del primo poeta latino, Quinto Ennio – originario di Rudiae, fino ai giorni nostri, l’esperienza della poesia ha abitato quella striscia di terra che, prim’ancora d’essere ultima propaggine del mondo, era stata sguardo e approdo, soprattutto cominciamento, soffio, avvio, incertezza – quella che appartiene a ogni ricerca di un altrove scorto in lontananza eppure mutevole, figlio dello sguardo che, sì, osserva, ma rileva presenze e forme ora decise, ora meno, nella precarietà di una visione debitrice del vento, della luce e del cielo. Motivi ed espressioni comuni si ripetono fra le due tradizioni popolari, greca e salentina, evidenziando come la ripetizione – orale – non fosse soltanto una memoria capace di conservarsi comune fra i due popoli, ma una struttura esplicativa di un modo di pensare. Lòja gramména, ovvero parole strette, a seconda della versificazione, nel cuore, nel petto, sulle labbra, è uno di questi motivi tipici, la cui condizione è prima di tutto testimonianza di una poesia come penetrazione nel corpo, del rapsodo/aedo, e nella socialità del mondo come esperienza prima di tutto attiva, in movimento. Entrambe le tradizioni popolari presentano l’accompagnamento musicale ai versi, tramandati per via orale e il forte grado metaforico della composizione che esprime la soggettività lirica per improvvise illuminazioni. Eppure questo non basta. Lo studioso Brizio Montinaro ha rilevato come una tale condizione sia arrivata addirittura fino al Novecento (Montinaro, Il tesoro delle parole morte. La poesia greca del Salento). Infatti, il carattere a volte violento, volgare, sarcastico, trovava articolazione nel lavoro nei campi attraverso la ferrea rivalità fra paesi, in una versione rilevata da Montinaro da un contadino originario di Martano che ebbe modo di riferire un fatto a lui accaduto all’età di 18 anni: Ti devo raccontare un fatto che mi è accaduto molti anni fa, non tanti però: io potevo avere diciassette diciotto anni. Siamo andati a Zollino per mietere. E il massaro ci disse che [tra gli altri mietitori] c’erano due che erano poeti (p. 24). Il resto del racconto prosegue con il mietitore martanese che viene sfidato al canto da un mietitore zollinese lungo una geografia umana ed esistenziale che sembra provenire da lontano insinuandosi nelle pieghe del ‘900, momento in cui è rilevata da Montinaro direttamente dal contadino originario di Martano. La caratteristica della versificazione tende e si concede al canto tra sarcasmo e volgarità. Di questa tradizione polemica, violenta, eppure favolistica, drammatica e amorosa si è conservata nel corso dei secoli la condizione di una vis polemica prima di tutto incapace, nei poeti più dotati, di articolare compromessi, bene esemplificata dalle parole di Flavio Santi che scriveva: “La linea borbonica[1] ha perso perché (in buona fede) ha sbagliato politica: proprio come un nobile aristocratico è restata nella sua villa di campagna a bere vino d’annata, mentre tutti traslocavano in città a bere crodino; la linea lombarda, molto pragmaticamente, ha capito che non basta scrivere capolavori. Bisogna anche saperli vendere. A volte, se è il caso, anche con l’aiuto di qualche imbonitore”. C’è stato, allora, un Salento dei poeti che nel Novecento ha visto il susseguirsi di autori e gruppi la cui irriducibilità a scuole, prima di tutto “politicanti”, ne ha sancito l’inclassificabilità dettata da una mai domata spigolosità sprezzante e irredenta, come di chi si colloca nella propria terra, ma con la tensione dello sguardo rivolta all’altrove della ricerca. Ecco allora che si susseguono, da questo punto di vista, Vittorio Bodini e Vittorio Pagano, Carmelo Bene e Francesco Saverio Dòdaro, Antonio Verri e Salvatore Toma, Claudia Ruggeri e Stefano Coppola, Enzo Miglietta e Franco Gelli e quell’indomito vichingo, del segno pittorico e poetico-visivo, che era Edoardo De Candia.
Cosa resta, oggi, del Salento dei poeti? Poco o nulla. La ribalta mediatica ci ha consegnato un territorio che, contrariamente alla sua mediterraneità aspra e selvaggia, si è fatto terra di conquista, ammorbidito dallo show perenne, patinato e imborghesito, mascherato da gran dama eppure goffo nel vestito buono della festa. La poesia ha perso mordente, indossando l’abito del politichese. Dove si trova, allora, il Salento dei poeti? Si è fatto struttura mobile, sguardo precario che oscilla fra l’estremo lembo di terra a sud-est e la variabilità geografica di chi lo ha lasciato, ma ne conserva intatta la verve e la “ferocia”. Se c’è un Salento dei poeti, oggi, è fluido, sostanza prima di tutto geo-esistenziale che ha abbandonato la fissità dell’approdo, elevandosi a deriva. Cristiano Caggiula (Casarano, 1990) oggi vive e lavora e Roma, ma la condizione mediterranea dell’approdo la conserva intatta. Il suo lavoro, articolato nella commistione fra segno asemantico-materico, poesia e linguaggi digitali articola nella frantumazione dei “segni” la dimensione a-logica di un soggetto-oggetto che è tagliato, sovraesposto e sovrapposto di continuo. Nella sua poesia è consacrata la morte di una qualsivoglia figura prometeica. Non c’è un fuoco a cui aggrapparsi e l’illusione è apparentata con la ragione. Ciò che sopravvive allo scoramento è dato da quei canali fluidi e veloci del pensiero. Il linguaggio, ricondotto alla privazione di ogni fondamento supremo della ragione, è tarlato, è attraversato da crepe e contraddizioni: «Tu che sei il senso che striscia / per segnare la strada / tu che avanzi / con la torcia dell’eremita / dimmi dove andare / tu che non sai dove andare / seguirti è la cosa migliore». L’abbassamento/degradazione del “senso”, non più elemento supremo, ad elemento “che striscia” è sintomatico di questa tendenza alla quale segue il rafforzarsi della contraddizione che si dà come correlativo dell’individuo “tagliato” che è oggi espresso nei libretti d’artista, luoghi d’incontro fra una poetica digitale (glitch) e una manuale, artigianale, dove la parola trova casa frantumandosi in orizzonti dispersi di senso e il corpo è prima di tutto un corpo che urla dal fonda di una lingua ancora non nata.
Gianluca Garrapa (Castrignano dei Greci, 1975) vive e lavora a Empoli, ma la sua pratica poetica si muove in un flusso che non rinuncia alla lingua madre e colloca il dialetto nella prospettiva di una performatività desiderante. Il suo ultimo libro, “Pagina bianca” (Miraggi ed.) è un testo in cui l’autore affronta il vuoto, sì, e sembrerebbe procedere nell’accumulo e successiva dispersione delle parole, quasi frutto di una serie di libere associazioni, ma laddove il controllo sembra cessare, è, invece, pronto ad emergere nella fisicità desiderante di un autore che procede soprattutto per sottrazione (là dove ognuno crede di non pensare), smentendo la prima impressione, elaborando il blocco “grezzo” di un corpo che nello sprofondo della pagina erige un canto che trova nella polifonia di voci il luogo per esprimersi al meglio. La sgrammaticatura di certe pagine (alio, cepola, sensero) rimanda a un parlato altro, italiano in divenire di chi cerca di costruirlo, edificando in sé una voce sconosciuta che dialoga in una lingua non sua. Garrapa esprime al contempo la condizione di chi emigra oggi in Italia ed è costretto a fare i conti con una lingua che non gli appartiene, ma anche la propria condizione attraverso l’adozione del dialetto che è “anima dialetto lalingua / che si parla si parlava”. E ancora:
grico bizantino scuola bimbo / studio professore elementare / poeta patrimonio rhollfs contro morosi / : il greco è di origine magna greca / il greco è di origine bizantina / delle due l’una o l’altra / i suppose / la lingua che si parla nei paesi. quandu che si parlava in grecia. all’anno 1000. agito dal morbo virale era picciccu alle scole elementari studiava lu griku. della grecìa è quella. della poesia che è sempre di origine. poi me scerrai lu griku e lu dialettu. scrivu per inerzia. agito dall’altro. / aliena.
Tutta la produzione di Garrapa è performativa. La parola è azione di un corpo che abita una lingua, più lingue, più segni, venendone parlato. Si parla e non c’è parola, ma piacere del testo da assaporare (“prima cu scrivi / ssapura le parole”). La parola allora si intreccia con una ricerca sul segno che è apertura del corpo verso un altro indeterminato, indefinito e per questo il segno è sconfinato, asemantico, aperto, in ascolto costante.
Ma il Salento dei poeti, che è anche fuori, lo si ritrova nel lavoro di un autore come Donato Di Poce che nel suo ultimo libro dedica due testi alla scrittura di questa terra. Il primo è rivolto a Carmelo Bene e dà il titolo al libro, “L’altro dire” (Edizioni Helicon), il secondo, invece, a Francesco Saverio Dòdaro ed era stato anticipato dalla rivista Utsanga.it nel marzo del 2018 in omaggio a Dòdaro, da poco scomparso. Il lavoro di Di Poce verte sull’impossibilità del dire, attraverso una poetica che traspone il massacro dello spartito linguistico lungo le coordinate della parola che è azione come scoperta e svelamento della bellezza. Di Poce agisce lungo il terreno dell’osservazione della quotidianità, luogo da cui raccogliere poco, se non “avanzi di senso”. L’indagine poetica procede attraverso l’esclusione di ogni possibilità, per la parola, di racchiudere il senso delle cose, del mondo, dove ogni tentativo di linguaggio frana negli “alfabeti fatti di nulla” che l’uomo si affanna a condividere. Tutto ruota attorno ai temi della bellezza e dell’impossibilità del dire, attorno al vuoto di senso in cui frana ogni esperienza linguistica.
È singolare, invece, il caso del poeta napoletano Carmine Lubrano, aedo che ogni anno da maggio a settembre abita gli spazi di Roca Vecchia animandoli con una scrittura franco-napoletana che strizza l’occhio alla storia, alla cultura e al dialetto del territorio salentino. L’immagine della grotta della Poesia è per Lubrano gioco e pretesto, oltre che fulcro di una poetica che nella lezione della marginalità recupera elementi, friabili come quel tratto di mare a lui caro, elaborandoli con fare barocco attraverso fughe, musicali, che ne mettono in atto, per mezzo della ripetizione, lo straniamento e l’ampliamento semantico. La poesia è per Lubrano la grotta e il testo, ma forse l’una è già l’altro e viceversa. Per il poeta, un dito infilato nel ventre molle della scogliera salentina è già segno autorale, parola che varca i confini del corpo e prende forma. L’autore, allora, è un brulicare di forme, dall’immagine socialmente istituita, formulata, al poeta napoletano Giacomo Lubrano fino al flusso delle informazioni raccolte dai social, Carmine Lubrano costruisce un mondo che trova nella poesia la contestazione critica allo status quo in favore dell’imprevisto. Da Emilio Villa a Carmelo Bene, da Sade a Sanguineti, ma non solo, Lubrano recupera la lezione barocca di Carmelo Bene vivificando, nella sua poetica performativa, l’incanto ritmico, l’estasi sonora, la sovrabbondanza e il gusto labirintico per il vocabolario – non a torto l’autore strizza l’occhio anche al Rohlfs dei dialetti di Terra d’Otranto – quasi appuntando e manomettendo parole violente, feroci, selvagge, virandole verso la deformazione in una poetica libera e anarchica che elogia il “cantiere culturale salentino” (Verri, Dòdaro, Ruggeri) – così canta in una recente serie di testi. Da maggio a settembre, ogni anno, il poeta è a Roca, ultimo cantore di una leggenda chiamata Poesia.
[1] Flavio Santi ha chiamato questa linea poetica come “Borbonica”, qui si opta a favore della definizione data in precedenza da Antonio Verri, ovvero “linea bizantina” o, in alternativa, la si considera una linea dell’eccesso.