La pensione è in centro, a pochi passi dalla statua di Pessoa e costa poco, anzi pochissimo. Unico neo: fa schifo e questo, invece, mi costerà carissimo.
Da quando l'ho arbitrariamente prenotata su internet, attratto dalla posizione centrale e, soprattutto, dal prezzo irrisorio, Elisa non ha smesso di tormentarmi. "Vedrai, sarà una bettola!", oppure , "Senti Pietro, non viaggiamo praticamente mai, una volta che succede non ho voglia di ritrovarmi in un postaccio scomodo e sporco", queste sono state alcune delle funeste previsioni/minacce della mia raffinatissima fidanzata, abituata per lavoro a soggiornare in hotel puliti ed efficienti. Ora che siamo davanti al Residencial Pátria sono costretto ad ammetterlo: è proprio un posto di merda!
- Vedrai che dentro è meglio. - dico sperandolo con tutto il cuore.
Io questa notte ho lavorato fino alle tre nel Caffè Letterario, poi ho dormito per meno di due ore e siamo partiti. Insomma, sono in ballo dalle cinque di questa mattina e non mi reggo più in piedi. L’idea di rimettermi in marcia alla ricerca di un’altra sistemazione mi terrorizza.
Eli sospira e mi regala uno sguardo che contiene una perfetta miscela di scetticismo, esasperazione e rassegnazione. Non so come facciano, sarà un talento innato o glielo insegnano le mamme da bambine, ma solo le donne, anzi no, le fidanzate quando hanno ragione, cioè quasi sempre, riescono a racchiudere tanti messaggi in un solo sguardo.
Una volta dentro, i miei peggiori timori si avverano. Se il prospetto è decadente, l'interno è, ad essere buoni, fatiscente, buio e maleodorante. Un gabbiotto simile a quello di un banco dei pegni ospita Rachid, il proprietario, un arabo trapiantato a Lisbona, dalla faccia truce. Espletiamo in fretta le pratiche del check-in e, mentre ci apprestiamo a salire in camera, la nostra attenzione è attirata da una coppia, stranamente assortita, appena entrata nella pensione. Lui è un sessantenne, basso e largo che ricorda un ariete in procinto di caricare, vestito con giacca e cravatta di qualità dozzinale. Lei, invece, è una ragazzina poco più che maggiorenne, con addosso un paio di pantaloncini microscopici e una maglietta che le lascia scoperta la pancia e mette in evidenza un seno piccolo e ancora acerbo. In netto contrasto con l'abbigliamento provocante, l'espressione spaurita della ragazza ci lascia decisamente perplessi. La mano di lui, costantemente artigliata alla spalla di lei, non fa che peggiorare l'impressione che ne ricaviamo. Nessuno di noi due parla portoghese ma entrambi riusciamo a comprendere la richiesta dell'uomo: vuole una camera per un'ora.
Un silenzio carico di tristezza e sconforto ci accompagna nella nostra stanza, la 109.
- Ti rendi conto di dove mi hai portato? - chiede Eli appena chiusa la porta.
- Sì, tesoro e mi dispiace da morire - rispondo sinceramente addolorato - Facciamo una cosa, ora riposiamo un po’, poi prendiamo armi e bagagli e ci spostiamo dove vuoi tu, ok?
Lei nemmeno mi risponde, si guarda intorno sempre più nervosa e poi aggiunge - non c’è nemmeno il bagno in camera.
- Amore, ti ho fatto una proposta, sarai stanca anche tu, no? Dormiamo un’ora, poi pago e andiamo. Ok?
Lei ci pensa un po’ su, poi si arrende e dice - Non più di un’ora.
Poi, senza degnarmi di uno sguardo, apre il suo trolley ed estrae uno strano lenzuolo arrotolato.
- Sei davvero un genio! - esclamo ammirato - In effetti, l'idea di usare le loro non esalta nemmeno me.
- Allora, intanto questo è un sacco lenzuolo ed è singolo per cui lo uso io, tu arrangiati, e poi è inutile che fai il paraculo, la pagherai per avermi trascinata qui.
Deglutisco sonoramente, Giove vendicativo!
- Ora scusami ma, effettivamente, anch’io ho sonno. - conclude glaciale e, srotolato il suo malefico aggeggio, ci si infila dentro come una fetta di bresaola in un panino, voltandomi le spalle con gesto teatrale.
Io tiro fuori dal mio zaino un asciugamano in microfibra. Benedetto sia nei secoli, perché la sensazione di sporco cresce ogni secondo di più. Cado in un sonno quasi immediato e dormo non so per quanto tempo. Al mio risveglio il sacco lenzuolo ed il suo contenuto sono spariti. Mi guardo in giro temendo di non vedere neanche più i bagagli. Incazzata com’è, Elisa sarebbe capacissima di abbandonarmi qui senza avvisarmi ma, eccoli nell'angolo.
Recupero il mio asciugamano, prendo il beauty case dallo zaino e mi dirigo alla ricerca del bagno comune. In fondo ad un corridoio male illuminato trovo una porticina con la scritta toilette. È socchiusa.
- C'è nessuno? - chiedo per sicurezza e, non ottenendo risposta, entro. Cerco la chiave ma non la trovo e non c'è traccia di nessun altro sistema di chiusura. Perfetto! Lascio perdere la porta e mi volto. Quello che vedo non lo guardo con i miei occhi, ma con quelli di Elisa, riuscendo ad immaginare il suo disgusto davanti a questo spettacolo immondo. Sono ufficialmente fottuto. Le ceramiche sono rigate dal calcare e da uno sporco più vecchio di me. Il lavandino sembra mitragliato da incrostazioni di dentifricio sputato, azzurro e verdino, e da chissà cos'altro. Lo specchio è infestato da punti di ruggine e ha un angolo filato. Del bidè, ovviamente, non c'è traccia, mentre la tazza del water ha su una tavoletta ingiallita che ha perso buona parte della vernice originaria, mostrando la sua anima di truciolato irrimediabilmente intrisa di piscio.
Giove vomitevole, a confronto il bagno di Trainspotting era una toilette nipponica di lusso! Peli e capelli fungono da tappeto e da carta da parati. La doccia è pietosamente occultata da una tenda di plastica un tempo bianca, ma che ormai dal beige sta virando al marrone. Ok, lo ammetto: la mia idea di pensioncina romantica, centrale ed economica è stata a dir poco fallimentare.
Mi volto deciso ad uscire da quel bagno orrendo, quando uno strano rumore soffocato mi blocca sulla porta. Veniva dalla doccia, ma ora è sparito. Magari era un gorgoglio delle tubature. Qualcosa però mi spinge a scostare la tenda. Non so spiegare il perché, ma me la sto facendo letteralmente sotto, così sollevo il braccio destro con il pugno chiuso pronto a colpire e decido di aprirla, di scatto, col sinistro, al mio tre.
Uno... due... tr… - AAAaaahhhh!!!!
Una ragazza seminuda urla con gli occhi sbarrati dal terrore. Gridò anch'io in preda al panico e, di riflesso, il mio pugno parte violentissimo senza che io possa fare nulla per fermarlo. La colpisco dritta sull'occhio sinistro. Lei si accascia nel piatto doccia, portandosi via la tenda un anello alla volta.
- Oh merda, merda, merdissima! Che cosa ho fatto? - impreco tenendomi la testa tra le mani.
- Signorina! Signorina... - ripeto - mi risponda, la prego!
Mi chino su di lei, le sollevo il viso per assicurarmi di non averla uccisa e la riconosco. È la ragazzina entrata col vecchio. Per Giove, che sta succedendo?
Lei respira, ma è ancora priva di conoscenza. La prendo in braccio con tutta la tenda. È leggerissima, peserà poco più di quaranta chili e, senza molto sforzo, la porto in camera.
- Signorina, si svegli! - continuo a dirle, ma sembra quasi che dorma beata, non fosse per il totale abbandono delle membra. Cazzo, l'occhio sinistro è rosso e gonfio. Mi sento uno schifo. Non avrei mai pensato di poter picchiare una donna, è una cosa che trovo abominevole. Mi accorgo, però, che ha altri due lividi sul viso e quelli non posso averglieli fatti io. Lascio la ragazza ancora svenuta sul letto e vado a recuperare il beauty-case e l'asciugamano che ho dovuto abbandonare nel bagno. Quando sto per rientrare in camera, dalle scale, ecco che arriva il vecchio, trafelato e con un rivolo di sangue secco che gli si allunga sulla fronte.
Lui mi individua immediatamente, mi raggiunge con occhi da pazzo e mi chiede - A menina, onde está a menina?
- La ragazza?
- Sim, a menina?
- Mi dispiace - dico accentuando la mimica - ero in bagno. Non ho visto nessuna menina.
Lui mi scruta in viso con occhi cattivi poi, senza salutare, si volta per proseguire la sua caccia.
Per Giove, che brutto ceffo! Apro la porta il minimo indispensabile e scivolo dentro. Mi guardo intorno allarmato: la stanza è vuota. Dove diavolo è finita? Sono stato in bagno per meno di quindici secondi, e non ho mai tolto gli occhi dalla porta. L'unica via d'uscita è la finestra ma è chiusa dall'interno. La apro per controllare, così per scrupolo, e mi affaccio. In quel momento, un rumore alle mie spalle mi fa sobbalzare. Mi volto giusto in tempo per vedere la ragazza scivolare da sotto il letto e lanciarsi a perdifiato verso la porta. Con un balzo piuttosto atletico per un tizio pesante e fuori forma come me, riesco a bloccarla appena prima che possa aprirla.
Prova a divincolarsi urlando - deixe-me, deixe-me...
Le metto una mano sulla bocca e con l'altra le faccio cenno di non urlare.
- shhh... the man, is out. The old man.
Lei sembra capire all’istante, infatti si blocca come congelata dal terrore.
La lascio libera e mi siedo sul letto.
- Come ti chiami?
Lei non sembra aver capito.
- Il mio nome è Pietro, tu come ti chiami? - scandisco ogni sillaba, indicando prima il mio petto e poi il suo.
- Meu nome è Safira.
- Bello!
- Obrigada. - risponde.
Da qui in avanti vi risparmierò le acrobazie mimico linguistiche usate da entrambi per comunicare e, per maggiore chiarezza, riporterò solo la traduzione dei dialoghi, ok?
- Mi spiace per il pugno, - le dico osservando addolorato il livido espandersi sotto il suo occhio - mi sono spaventato.
- Non ti preoccupare, anzi grazie per avermi nascosta.
Solo ora mi rendo conto che una spallina della maglietta è strappata e lei la tiene su con una mano e che non ha più i pantaloncini, ma degli slip piuttosto minimal. Mi alzo, mi avvicino, le sfioro il viso dove ci sono i lividi e le chiedo - È stato lui?
- Sì.
- Vecchio bastardo!
Prendo il trolley di Elisa, ma lo ha chiuso con il lucchetto a combinazione. Recupero dal mio zaino un coltellino svizzero che porto sempre con me in viaggio. Armeggio per qualche minuto e tanto faccio che il lucchetto di Eli si apre, per sempre, visto che le rotelline della combinazione cadono per terra rotolando e, con esse, anche un paio di piccole molle. Mi ammazzerà, ma almeno sarà per una buona causa. Prendo dalla valigia un reggiseno e un vestito pulito e lo passo a Safira che mi regala un sorriso di riconoscenza capace di ripagarmi in anticipo per il cazziatone che subirò.
A questo punto mi volto in modo che lei possa indossare i suoi nuovi abiti in santa pace, ma un rumore di passi si avvicina minacciosamente alla nostra porta. Mi volto istintivamente verso Safira che mi guarda preoccupata in slip e reggiseno e con il vestitino ancora in mano.
- È lui? - chiede.
- Peggio, - dico io - è lei. - poi aggiungo - Presto, metti il vestito.
Ma proprio in quel momento fa il suo ingresso Elisa. Giove condannato, sono un uomo morto!
Lei si blocca sulla soglia con la mano ancora sulla maniglia e in viso un’espressione incredula. I suoi occhi fissano Safira ancora mezza nuda che indossa la sua costosa biancheria e sta infilando un suo vestitino, poi passano sul suo trolley ancora aperto con il suo lucchetto forzato e distrutto, per arrivare sul suo fidanzato, cioè io, carichi di un tale odio che Uma Turma in Kill Bill, al confronto, sembra Biancaneve mentre prepara la torta per i nanetti.
La raggiungo con un balzo e, prima che possa urlare o scappare via, la tiro dentro per un braccio chiudendo la porta alle sue spalle.
- Amore, ascoltami…
- Ascoltarti? Brutto pezzo di…
- Eli, per favore - dico alzando la voce - non gridare, per Giove! Lei è Safira e il farabutto che abbiamo visto con lei, l’ha picchiata e le ha strappato i vestiti di dosso, così è scappata. Io l’ho nascosta qui dentro e le ho dato qualcosa di tuo per coprirsi, ok?
Intanto Safira ha finalmente infilato il vestito. Eli solo ora si accorge dei lividi sul suo viso. La fissa incerta e poi le si avvicina addolorata. La abbraccia e scoppia in lacrime.
- Perdonatemi - dice. Poi si scosta, riprendendo il controllo di sé, la guarda e dice - Scusatemi ancora.
- Non preoccuparti, era facile fraintendere.
Lei con le lacrime agli occhi, osserva i lividi della poverina. Io preferisco sorvolare sul fatto che il più grosso gliel’ho fatto io.
- Safira, io mi chiamo Elisa. Come possiamo aiutarti?
- Dobbiamo farla uscire da questo albergo. - rispondo al suo posto - Poi magari andiamo dalla polizia a…
- No, la polizia no - la voce di Safira ci interrompe implorante - vi prego, niente polizia!
Io ed Eli ci guardiamo poi è lei a dire - Ok, niente polizia.
Safira sorride sollevata.
- Allora, come la facciamo uscire? - chiede Elisa - Il vecchio è ancora qui fuori che gira per l’albergo come un matto. L’ho visto mentre tornavo su, aveva una faccia...
- Scendo prima io a controllare la situazione - dico - poi torno qui e, se la via è libera, ce ne andiamo.
- Non sono d’accordo. - replica Eli - Scendo io così faccio da palo e, tramite telefono, ti tengo aggiornato.
- E come, di grazia? Qui i nostri cellulari sono inutilizzabili e figurati se questa bettola ha il wi-fi.
- E invece ce l’ha. - dice Eli - Mentre dormivi sono scesa a chiedere e mi hanno dato la password.
- Grande! Allora, tu scendi, paghi il conto della camera, poi mi fai una chiamata vocale utilizzando whatsapp e ci aggiorni sui movimenti del bastardo, ok?
- Ok!
Nonostante la nostra ultima conversazione fosse in italiano, Safira pare aver capito tutto, perché sorride e, posando una mano sulla spalla di entrambi, ripete per l’ennesima volta - obrigada.
Quindici minuti dopo siamo tutti pronti. Ora anche il mio telefono è connesso al wi-fi dell’albergo. Elisa ha persino reso Safira difficilmente riconoscibile, truccandola, facendole indossare i suoi occhialoni da sole vintage e un foulard messo in testa a mo’ di turbante. Quando vuole, sa essere una grande la mia fidanzata.
- Allora, siamo intesi, io scendo e controllo la situazione poi vi chiamo su whatsapp e vi do il via libera.
- Ok!
- Sim!
Eli si affaccia con circospezione poi, senza aggiungere altro, scivola via richiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
Safira ed io quasi non respiriamo e, con le orecchie tese, proviamo inutilmente a cogliere ogni rumore proveniente dall’esterno della stanza, ma un silenzio siderale, capace di farci percepire il suono dei nostri cuori, sembra avvolgerci minaccioso. Ci guardiamo negli occhi. Ognuno legge in quelli dell’altro l’ansia e la tensione dati dall’attesa. Quasi contemporaneamente ci viene da ridere, ma il sorriso ci muore sulle labbra perché il mio telefono comincia a suonare.
- Ci siamo. - dico sollevandolo - Pronto Eli?
- Eccomi, allora, buone notizie: - dice subito lei a bassa voce - nessuna traccia del vecchio porco. Scendete subito, camminate rapidi, ma tranquilli. Vi aspetto giù, intanto pago il conto della stanza e tengo gli occhi aperti.
- Perfetto, arriviamo.
Safira sembra aver capito tutto perché, senza aspettare spiegazioni, mi sorride, annuisce e apre la porta. Camminiamo per il corridoio a passo spedito. Io prendo la sua mano. Lei mi guarda interrogativa.
- Fingiamo di essere una coppia di fidanzati, ok?
Lei annuisce e continua a camminare, ma più vicina, in modo che le nostre spalle si sfiorino.
Per imboccare la rampa di scale, dobbiamo passare davanti alla stanza 102, quella che lei occupava con il vecchio. Vedo che, superandola, Safira la guarda con un residuo di terrore negli occhi.
“Chissà cosa le ha fatto lì dentro quel maledetto porco?”, mi chiedo.
Abbiamo superato la porta da pochi passi che la sentiamo aprirsi lentamente. Safira stringe forte la mia mano ma continua a guardare davanti.
- Calma! - le sussurro.
La tiro verso di me e le cingo le spalle in un abbraccio avvolgente che, grazie alla mia mole imponente e alla sua minuta, la copre quasi del tutto. La rampa delle scale è a più di dieci metri da noi.
Cazzo, se il vecchio riconosce la sagoma di Safira, ci raggiunge in due secondi!
Sentiamo dapprima la porta che, chiudendosi, sbatte con forza, poi uno strano rumore e, infine, una voce che urla - Puta de merda!
Giove fottuto, l’ha riconosciuta. Son pronto a correre ma Safira mi blocca e si volta a guardare, così, anch’io faccio lo stesso.
Davanti alla 102 una chiazza di liquido scuro si allarga sulla pavimento. Un uomo, con indosso un grembiule, è chino per terra. Con uno straccio prova a tamponare l’acqua sporca caduta da un secchio che giace ancora rovesciato. Accanto ci sono una scopa e uno spazzolone, anch’essi rovinati sul pavimento.
- Merda, filho da puta! - impreca l’inserviente dell’albergo senza degnarci di uno sguardo.
Noi due riprendiamo a respirare e a camminare un po’ più sollevati, ma la tensione torna prepotente pochi secondi dopo, quando il mio telefono ricomincia a squillare.
- Ci sono problemi? - chiedo allarmato.
- No, del vecchio nessuna traccia. - risponde Eli - Volevo solo dirti che ho pagato la camera e vi aspetto giù, vicino all’ingresso. - poi aggiunge - Secondo me ha abbandonato la ricerca.
- Speriamo!
Facciamo le scale con passo svelto. Giriamo a sinistra e imbocchiamo l’ultima rampa. In fondo c’è la reception e l’uscita. Eli è lì accanto e ci attende con un sorriso tirato che le muore sulle labbra per lasciare posto ad uno sguardo incredulo quando mi vede voltarmi verso Safira e baciarla con passione. La stringo tra le braccia e la spingo verso il muro praticamente inglobando il suo corpo nel mio, intanto spero che Eli non faccia una scenata, ma capisca le mie intenzioni.
Proprio quando i nostri piedi lasciavano l’ultimo scalino, alle sue spalle è comparsa la sagoma del vecchio in controluce. Non so nemmeno come ho fatto a riconoscerlo, ma sapevo che era lui, così ho agito d’istinto e ho baciato Safira per nasconderla alla sua vista.
- Por favores donde stas un bar por un cafèttiño?
É la voce di Elisa che improvvisa in portoghese maccheronico. Sempre con le labbra incollate a quelle di Safira, riesco a vedere che l’uomo si è voltato nella sua direzione e la sta squadrando senza pudore.
- Tiengo um grande desidejo de ber un cafèttiño de Lisboa. - continua Eli in tono ammiccante.
- Olá beleza, - risponde lui con una voce ruvida come una grattuggia - se você quiser, eu vou levá-lo.
- Por que não! - risponde lei, gli sorride, poi si volta e lo segue verso chissà dove.
Giove disorientato, che cazzo si saranno detti? Io mi allontano da Safira che intanto coglie immediatamente la mia preoccupazione e mi fa capire che sono andati al bar a bere un caffè insieme.
- Ah!
- Non ti preoccupare, la tua donna è una in gamba - mi rassicura.
Lo so, Giove colpevole, ma, se le succede qualcosa, non me lo perdonerò mai.
Safira riprende a camminare a passo ancora più svelto e, senza voltarsi mai, esce dall’albergo. Io la seguo a fatica. Appena siamo fuori, comincia a correre verso sinistra, così, senza aspettarmi e, pochi metri dopo, ne perdo completamente le tracce. Io resto letteralmente di sasso, poco distante dalla porta dell’albergo e seguo la sua sagoma che svanisce nella folla. So bene che non c’era tempo da perdere, ma ci rimango male lo stesso. Almeno un saluto, un grazie, un arrivederci, uno sguardo, Giove ingrato!
A quel punto il pensiero di Elisa torna a reclamare tutta la sua urgenza. Dove sarà?
Se Safira si è messa a correre verso sinistra, è molto probabile che abbia visto il vecchio ed Eli andare a destra. Così, mi dirigo anch’io a destra, sperando che la mia deduzione sia giusta. Entro in ogni bar che incrocio, ma di loro non c’è traccia. Quando mi sembra di essermi allontanato troppo, torno indietro. L’ansia cresce e con essa il senso di colpa. Se non avessi scelto quell’albergo del cazzo, maledetta testa di minchia che non sono altro! A proposito, eccolo lì, l’albergo intendo. E se ci fosse tornata per cercarmi? Entro e chiedo a Rachid se l’ha vista. Lui mi risponde di no, ma aggiunge che si è assentato dalla sua postazione più di una volta quindi non è sicuro al cento per cento.
Mentre la mia preoccupazione ha raggiunto dimensioni ciclopiche, il telefono riceve un messaggio Whatsapp. È di Eli: “Dove sei? Io ho seminato il vecchio. Ti aspetto nel Caffè A Brasileira, davanti alla statua di Pessoa.”
Non riesco nemmeno a descrivere il sollievo che mi dà sapere Elisa sana e salva. Aveva ragione Safira, la mia donna “è una in gamba” .
Esco dal maledetto albergo, questa volta per sempre, spero, e a passo veloce mi dirigo verso il luogo dell’incontro. Finalmente riesco a godermi un po’ la passeggiata. Il quartiere in cui mi trovo, il Chiado, è un piccolo intrico di vie caratteristiche e piazzette che trasudano cultura da ogni pietra. La via in cui si trova il Caffè A Brasileira, rua Garrett, è una tipica passeggiata pedonale, zeppa di negozi e ristorantini per turisti. Ecco la statua di Pessoa! Lui è seduto, bronzeo e serafico, ad un tavolino, accanto ha una sedia vuota, anch’essa di bronzo. Il Caffè A Brasileira è proprio alle sue spalle. Cerco Elisa tra i clienti seduti ai tavoli esterni, ma di lei non c’è traccia. Entro nel locale. È uno dei ritrovi storici di Lisbona e questo è evidente da ogni dettaglio: i rivestimenti in legno antico, i grandi lampadari a candelabro, l’orologio intarsiato che scandisce il tempo da oltre un secolo. Il locale si sviluppa in lunghezza con un bellissimo bancone a destra e i tavolini sul lato opposto. Dentro è pieno di avventori che sorseggiano la loro famosa bica, una tazzina di caffè molto forte, davvero simile al nostro espresso. Nemmeno qui riesco ad individuare Eli e sto per uscire demoralizzato.
- Pietro, onde você está indo?
Mi blocco. Ce l’hanno con me? La voce non è quella di Elisa, ma è familiare.
- Pietro, estamos aqui!
Mi volto e, all’ultimo tavolo, trovo beatamente sedute come due vecchie amiche, Elisa e Safira.
Giove disorientato, cosa sta succedendo?
- Ehi ragazze, mi sono perso qualcosa?
Safira non riesce a trattenere una risata sincera. La mia faccia spaesata deve essere davvero buffa. Elisa si alza e mi abbraccia.
- Tesoro mio, siediti con noi, così ti racconto.
- Sarà meglio. - ma prima ordino una bica, ne ho davvero bisogno.
- Dopo aver seminato il vecchiaccio, sono tornata davanti all’albergo ad aspettarti ma avevo paura facesse lo stesso anche lui così, poco dopo, mi sono diretta qui. Avevo percorso un centinaio di metri, quando Safira è uscita da un vicoletto e mi ha abbracciata alle spalle facendomi venire un infarto. - così dicendo le rivolge uno sguardo di rimprovero affettuoso - Stava aspettando nascosta lì nella speranza di incontrarci. Voleva ringraziarci a tutti i costi.
- Anche a rischio di essere trovata dal porco? - chiedo proprio mentre un cameriere in camicia bianca mi porta il famoso caffè di Lisbona.
- Dice che lo ha visto cercarci entrambe ancora per un po’, poi prendere l’auto bestemmiando ed andare via a tutta velocità. Siamo venute qui insieme e ti abbiamo aspettato chiacchierando. È davvero una ragazzina in gamba.
- Buffo, lei ha detto lo stesso di te. - dico sorridendo e sollevo la mia tazzina brindando a questa nuova e strana amicizia.
A questo punto Safira si alza e ci abbraccia con un calore che ci squaglia fin quasi alle lacrime.
- Vou manter sempre no meu coração!
Ci stacchiamo dall’abbraccio parecchi secondi dopo. Poi, per sciogliere un po’ la commozione, dico.
- Di cosa avete parlato in mia assenza?
- Del fatto che oggi ero sul punto di lasciarti per avermi portata in quell’albergo.
- Esagerata! - dico improvvidamente.
Elisa si limita ad incenerirmi con lo sguardo e poi riprende il suo racconto.
- Ma alla fine sono stata felice di esserci capitata così abbiamo potuto aiutarla.
- Vedi che in fondo è stata una buona…
- Pietro, sta zitto che non ci metto niente a tornare alle mie intenzioni iniziali.
- Ok, taccio!
- E comunque lei ti ha difeso con un argomento che non mi sento di contraddire.
- E quale sarebbe?
- Nulla, lascia stare.
- Il mio coraggio?
Entrambe scoppiano a ridere.
- Acqua. - dice Eli.
- La mia forza.
Loro ridono ancora più forte. Io comincio ad offendermi.
- La bellezza.
Qui quasi cadono dalle sedie per il troppo ridere.
- Pietro, per favore, smettila - mi implora Elisa asciugandosi le lacrime.
Che stronze!
- Allora, quale sarebbe questo motivo? - dico esasperato.
Safira sospira e poi dice - Porque beijos muito bem.
- Eh?
- Perché baci piuttosto bene.
E riprendono a ridere di gusto, e sono così belle ed allegre che non posso non unirmi a loro.
Continuando a ridere e a prenderci in giro come tre vecchi amici, ci alziamo e andiamo via.
Quando venti minuti dopo salutiamo Safira, un groppo alla gola ci impedisce di dilungarci, così ci stringiamo in un ultimo abbraccio e ci salutiamo, probabilmente per sempre.
Qualche minuto dopo, mentre siamo diretti ad uno dei migliori alberghi della città, mi blocco preda di un dubbio atroce.
- Amore, ma abbiamo pagato il conto al Caffè A Brasileira?
- Io no, - risponde lei candida - pensavo lo avessi fatto tu.
- Assolutamente no.
Giove portoghese*!
FINE
* Fare il “portoghese” è un'espressione idiomatica, che nell'uso comune è utilizzata per intendere l'usufruire di un servizio senza pagarlo. (fonte: Wikipedia)
Sicuro a Lisbona di Paolo La Peruta
- Paolo La Peruta
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