(Campomarino)

A svegliarmi non è la voce di mia madre, che per la sesta volta ripete la sua sveglia: “Paolo” e uno e due e tre, “Paolo, alzati che sono quasi le dieci”. No, ormai questa litania si è guadagnata un posto nel mio dormiveglia. A svegliarmi è un odore, anzi è l’odore dell’estate del 1985. L’estate dei miei 12 anni. L’estate del polpo al sugo e del suo olezzo pungente, dolciastro, appiccicoso, nauseante.

- Eeeeebastaaaaaa! – mugolo con la faccia sprofondata nel cuscino per turarmi il naso.

- Cosa? - dice mia madre, che quasi sobbalza per la sorpresa.

- Basta con questo maledetto polpo - rispondo - non ne posso più.

- Se parli con la bocca nel cuscino non ti capisco.

Sollevo la testa dal divanoletto che, tutte le notti, viene aperto nella salabarracucinabarraingresso della microscopica casetta che i miei hanno affittato a Campomarino per luglio e agosto. Unmilionecinquecentomilalire, settecento per luglio, ottocento per agosto, che vale di più.

- Ho detto: basta polpo! È una settimana che non c’è altro. Spaghetti col sugo di polpo per primo e polpo al sugo per secondo.

- Ma è fresco. Lo ha pescato tuo padre l’altro ieri!

- Ecchissenefrega! Da quando è in ferie, non fa altro che ammazzare poveri polpi indifesi. A te tocca cucinarli e a me svegliarmi con questo odore nauseante nel naso.

Mia madre ride mentre abbassa la fiamma sotto la pentola e solleva il coperchio. Nella stanza si libera una nuvola di fumo spesso come quello che, nei film, anticipa l’arrivo di un mago. Solo che in questo caso l’unica cosa che si materializza, appeso al forchettone di donna Fausta, è un mostro rossastro e contorto con otto spire avviluppate, contratte, da cui pendono brandelli di pelle scura, gelatinosa. Lo adagia sul piano di marmo del micro angolocucina e, con movimenti rapidi ed esperti, elimina le ventose più grandi per poi tagliare il poveretto in sezioni verticali, lasciando attaccata una porzione di testa a due tentacoli per volta. A questo punto solleva il coperchio della seconda pentola, da cui si sprigiona il profumo intenso del soffritto di aglio e cipolla unito a quello più acidulo dei pomodori freschi, ormai appassiti nell’olio, e ci butta dentro il polpo tenendo il braccio ben teso e il corpo distante per non ustionarsi con gli schizzi. La casa è ormai preda degli odori e dei vapori di questa pozione per streghe, che ribolle e si dibatte nel calderone chiuso, quasi che l’animale si fosse ivi ricomposto e lottasse per tornare fuori con l’intenzione di vendicarsi, magari frustandoci a morte con i suoi orrendi tentacoli squatati.

- Ti ho già preparato il latte con i biscotti. Io vado a mettermi il costume. Quando finisci andiamo da papà.

Mando giù di malavoglia la colazione. Il tavolo è a meno di un metro dalle pentole che mi costringono ad una sorta di aerosol per tritoni. Mi preparo frettolosamente, infilando il costume e una maglietta stinta con sopra la maschera dell’uomotigre.

La nostra casa in affitto non è un granché, anzi tecnicamente non è nemmeno una casa, piuttosto un garage, riadattato con due divisori in cartongesso e un bagnetto, ma ha un lato positivo: è la seconda casa prima della duna. Praticamente bastano ventidue passi contati per lasciare il paese ed essere al mare. A separare queste due dimensioni c’è la litoranea: una lingua d’asfalto aggredita dalle auto, dal sole e dalla sabbia, che il vento mette e toglie a suo piacimento. Attraversata questa sorta di barriera magica, mi sbarazzo degli odiati sandali di plasticaccia sudata e affondo i piedi nudi nella sabbia già calda. Che goduria!

Una larga corsia dorata, punteggiata da migliaia di gusci vuoti di lumaca, si arrampica dolcemente costeggiando cuscini di timo quasi secco, macchie carnose di rosmarino profumato e stupendi tappeti di fiori viola che strisciano, spinti da steli e foglie spessi come patate a tocchetti. Sembra quasi che la natura abbia apparecchiato questo fantastico scenario per preparare gradualmente il visitatore a quello che lo attende giunto al culmine della salita. Eccolo, il mare di Campomarino. Bastano questi pochi metri d’altezza dati dal banco di dune, per godere di una vista che ti riempie l’anima, anche quella di un ragazzino di dodici anni ancora assonnato. Il primo istinto è quello di fermarsi, come colti, ogni volta, di sorpresa. Oggi il vento soffia da nord. Il mare è teso come una pelle di tamburo dalle mille tonalità dell’azzurro. Si parte dal turchese della riva per arrivare al bluquasinero" giù, al largo. A destra, una spiaggia, profonda, bellissima e libera, che costeggia il paesino di casette disordinate e basse, i cui contorni si spezzano di netto con il molo.

Il molo: una striscia di cemento spavaldamente piantata sul mare che le mani di generazioni di vandali ed innamorati hanno riempito di oscenità e promesse. A sinistra lo scenario è diverso: pietre aguzze e sabbia pulita e ancora scogli levigati e rocce franate che sostengono una lunghissima curva di dune alte e disperatamente vive di vegetazione, che resiste nonostante il mare, il vento, il sole, le auto, i bagnanti di giorno e gli amanti di notte.

Dal culmine della mia duna parte una lunga discesa che porta alla nostra porzione di spiaggia. A questo punto non accelerare il passo è impossibile. Correre è istintivo. A trascinarti c’è la sabbia, a chiamarti c’è il mare.

- Paoloooo.

Volto lo sguardo verso gli scogli alla mia sinistra e distinguo la sagoma di mio padre che, in piedi, sventola qualcosa che somiglia ad uno straccio grigio.

- Hai visto cosa ho pescato?

Solleva più che può la sua ennesima preda e sorride tutto soddisfatto.

Sorrido a mia volta, gli corro incontro e dico – Bravo papà. Domani ce lo facciamo al sugo.

- Come piace a te. – dice sbattendolo con forza sullo scoglio più aguzzo.

- Già, come piace a me.

FINE

L’estate del Polpo al Sugo è tratto dal libro “Una frisella sul mare. Canzoni, ricordi e ricette da spiaggia” a cura di Pierpaolo Lala, edito da Lupo