“Raggiungimi davanti al Castello Carlo V alle 23.30. È necessario che arrivi in orario, altrimenti non venire proprio”, questo è il testo del messaggio che Aristodemo mi ha inviato alle 22.45. Sto cominciando ad abituarmi ai misteri che questo ragazzo mi propone e, ad essere onesti, essendo un appassionato del genere, mi diverto un mondo a scoprirli grazie a lui. Aris è un grande conoscitore delle storie oscure di Lecce, soprattutto quelle avvenute nei secoli passati, ed io sono uno scrittore di gialli sempre assetato di enigmi e fatti inspiegabili. Ecco perché, senza fare domande, alle 23.15 parto dal Caffè Letterario e alle 23.28 arrivo all’incrocio tra via Trinchese e via XXV Luglio. Svoltando a destra per raggiungere il Castello, la gente che affolla il centro sembra diradarsi fino a divenire un ricordo, vicino e lontano al tempo stesso. Rallento istintivamente il passo e proseguo immergendomi con cautela nella semioscurità creata dalle chiome degli alberi che delimitano la strada. Giungo davanti all’ingresso del castello in perfetto orario: le 23.30 in punto. All’improvviso, una voce bassa e roca alla mia sinistra mi fa letteralmente saltare per lo spavento.
- Ciao Paolo!
È Aris che, nascosto nell’ombra, abbandona le tenebre e mi viene incontro sorridendo soddisfatto.
- Te la sei fatta sotto, ammettilo!
- Certo, spunti fuori dal nulla come un fantasma.
- Giovanotto, - dice la voce di qualcun altro, anche lui immerso nel buio - certe parole vanno usate con cautela, soprattutto in luoghi come questo.
Io, per lo spavento, rischio di saltare in braccio ad Aris. Intanto, il titolare della voce si offre alla tenue luce di un lampione rivelando un viso pallido e inquietante di età indefinibile. I capelli, radi e bianchi, sono pettinati con cura all’indietro e gli occhi ardono di una strana luce amplificata dal nero di due profonde occhiaie.
Aris ora ride di gusto, poi si ricompone e dice - Paolo, ti presento il signor Romano, custode notturno del Castello da tempo immemore.
Io tentenno ancora per qualche secondo, poi gli tendo la mano. Lui la afferra, stringendola tra le sue con forza insospettabile.
- Lieto di conoscerla. - dico, poi, rivolgendomi ad Aris, chiedo - Ora, posso sapere che ci facciamo qui?
- Certo! Qualche giorno fa accompagnavo un gruppo di turisti a fare un giro del Castello. Sai che adoro i misteri e i lati oscuri delle storie e così ho parlato loro dei fantas...
- Preferirei le chiamaste anime. - lo interrompe il signor Romano con gravità.
- Giusto, ho raccontato delle anime che pare abitino ancora questo luogo. Alla fine della visita, il signor Romano mi si è avvicinato, mi ha fatto i complimenti per l’umanità con cui ho raccontato le storie dei… delle anime e, in via del tutto eccezionale, mi ha invitato a venire qui questa sera prima della mezzanotte. Ovviamente ho pensato a quanto ti sarebbe piaciuto partecipare, così gli ho chiesto se potevo coinvolgerti. Lui ha accettato ed eccoci qui. Ci stai?
- E me lo chiedi?
- Ora entriamo altrimenti non facciamo in tempo. - dice il signor Romano tradendo una certa impazienza. Aris mi dà una pacca d’incoraggiamento sulla spalla e segue l’inquietante custode. Io mi accodo.
Con una di quelle enormi chiavi che ho visto solo in qualche mercatino dell’antiquariato, il signor Romano fa scattare la serratura dell’imponente portone del Castello.
- Paolo, cosa sai di questo luogo? - mi chiede Aris appena il portone viene chiuso alle nostre spalle.
- Non molto. - ammetto - So che è uno dei più grandi di Puglia.
- Il più grande, vorrai dire. - puntualizza lui mentre continuiamo a seguire il custode - E poi, cos’altro sai?
- Non molto. Immagino che in qualche modo abbia a che fare con l’Imperatore Carlo V.
- Ovviamente.
- Che ne so, magari lo usava come residenza estiva quando veniva in vacanza nel Salento?
Il signor Romano si blocca e mi scocca un’occhiataccia, Aris Alza gli occhi al cielo e dice - Carlo V lo ha solo fatto ristrutturare, ma non ci ha mai messo piede, né nel castello, né a Lecce.
- Non sa cosa si è perso.
Aris finge di non aver sentito e dice - La vera “padrona di casa”, qui, era un’altra, sai di chi parlo?
- Questa la so, Maria d’Enghien! - esclamo soddisfatto.
- Bravo, una figura molto amata in Salento e non solo. Secondo la tradizione locale, Maria era un autentico modello di donna perfetta: sposa devota, madre affettuosa, regina, guerriera, mecenate e avveduta amministratrice. A prescindere da quanto tutto ciò sia vero o no, è sicuramente il personaggio più importante vissuto nel castello: principessa di Taranto, regina di Napoli, di Gerusalemme, di Sicilia e Ungheria, contessa di Provenza e di Forcalquier.
- Alla faccia del bicarbonato di sodio!
- Alla sua morte, fu sepolta in pompa magna nella chiesa di Santa Croce che, però, all’epoca sorgeva al posto di uno dei bastioni del Castello ma, quando iniziarono i lavori di ristrutturazione voluti da Carlo V, la chiesa fu rasa al suolo, tomba compresa.
- Povera anima!
- Già, povera anima. - dice il signor Romano che nel frattempo ci ha condotti nel cortile e indica un’ampia rampa di scale che, dal cortile, sale verso il piano nobile. Aris ed io solleviamo lo sguardo e ci ritroviamo, increduli, a fissare la figura di una donna che, illuminata dalla luna calante, si volta a guardarci. Il signor Romano si inchina con deferenza, noi lo imitiamo continuando a osservarla dal basso in alto. Lei ci rivolge un piccolissimo cenno del capo, poi riprende a salire un gradino alla volta con lentezza e regalità estreme, fino a scomparire dopo aver guadagnato il pianerottolo e svoltato a destra.
- Ti rendi conto di cosa abbiamo visto? - chiedo.
- Ti rendi conto di “chi” abbiamo visto, vorrai dire? - mi corregge Aris emozionato - La signora del Castello che saliva verso la Torre Magistra, che meraviglia!
- Come avete avuto il privilegio di vedere, l’anima di Sua Maestà Maria d’Enghein veglia ancora sulle sue terre e sui suoi abitanti. - dice il signor Romano, poi, con un gesto della mano, ci invita ad aumentare l’andatura e aggiunge - Ora scendiamo nelle prigioni.
- Pri… gioni? - balbetto. L’idea di infilarmi nelle segrete del palazzo, in piena notte, dopo aver visto un fantasma… pardon, un’anima,  lo ammetto, non mi alletta per niente.
- Seguitemi, non c’è nulla da temere. - prova a rassicurarmi il custode senza riuscirci.
Qualche minuto dopo, superata un’inferriata a maglie incrociate che funge da portone, ci ritroviamo a scendere per una scala in pietra che ci porta alcuni metri nel sottosuolo. L’illuminazione è spenta così siamo costretti a farci luce con le torce dei telefoni. Il signor Romano ci fa strada a passo deciso, come se riuscisse a vedere nel buio. Spuntiamo in un ambiente quadrangolare, suddiviso in due vani a volte, sorrette da un grande pilastro centrale, in pietra. La luce ondeggiante delle nostre torce traccia ombre danzanti sul pavimento e sulle pareti ricamate da una ragnatela di graffiti e incisioni. Più di una volta sono costretto a fermarmi, convinto di aver visto qualcosa muoversi, prima in un angolo, poi dalla parte opposta, fino a quando è proprio Aris a sussurrare - Lì, a sinistra, c’è qualcuno!
Non è una domanda e non ha bisogno di conferme. Dirigo la luce del telefono in quella direzione e lo vedo: un uomo anziano, in condizioni pietose, con addosso un camicione logoro e, sul viso, sporco e scheletrico, una lunga barba giallastra. Faccio un inutile balzo indietro e intanto urlo - Santo cielo, chi diavolo è?
- Non è nessun diavolo. - risponde severo il custode - È l’anima di Giangiacomo dell’Acaya.
- È lui! - esclama ammirato Aris.
- Lui chi? - chiedo io.
- È l’architetto che, a partire dal 1539, ristrutturò e rafforzò questo castello rendendolo un esempio per tutto il regno. È noto anche per aver fatto ricostruire completamente l’antico borgo di Segine, di cui era Barone, ribattezzandolo con il nome della sua famiglia.
- Acaya?
- Esatto. Era sicuramente uno degli architetti militari più importanti del suo tempo, fu perfino insignito del titolo di “Ingegnere Generale del Regno”.
Mentre osservo la piccola figura che si muove lungo le pareti, non posso non chiedere - E che ci fa qui, in queste condizioni?
- Eh, caro mio, la gloria è una dea capricciosa. Il grande Giangiacomo dell’Acaya garantì per un debitore insolvente e così fu arrestato e rinchiuso proprio nel “suo” castello dove, alla fine, morì.
- Povera anima in pena! - esclamo sinceramente colpito.
Il signor Romano mi rivolge uno sguardo di approvazione, annuisce e dice - Per favore, seguitemi, ci resta poco tempo.
Io rivolgo ad Aris uno sguardo interrogativo, lui solleva le spalle e riprende a camminare. Riemergiamo nel cortile, solo per scendere, pochi passi dopo, attraverso una rampa, nelle gallerie sotterranee del castello. Anche qui, il buio è assoluto. Una manciata di secondi dopo raggiungiamo una zona molto ampia. Una cucina a legna in pessime condizioni giace abbandonata sul un lato, un lettino da infermeria sull’altro e poi una grande quantità di bombole d’ossigeno arrugginite e impolverate, alcune ancora in piedi altre accatastate alla rinfusa. Aris, seguendo con lo sguardo la luce della mia torcia, dice - Durante la seconda guerra mondiale, questa zona fu utilizzata come rifugio antiaereo e infermeria.
Io annuisco, poi scorgo con angoscia l’angusto budello di pietra verso cui sembriamo diretti.
- Non ditemi che dobbiamo infilarci là dentro?
- Solo per pochi metri. - prova a rassicurarmi il custode.
Imbocchiamo la galleria ma, effettivamente, qualche secondo più tardi, il signor Romano si blocca e punta gli occhi verso la punta dei propri piedi. Aris ed io ci mettiamo accanto a lui e rivolgiamo la luce dei nostri telefoni nella direzione del suo sguardo. Una stretta botola si apre sul pavimento. Le nostre torce non riescono ad illuminare altro che pareti di roccia e, sul fondo, nient’altro che tenebre, poi, improvviso e flebile, arriva un lamento.
- Papà!
È la voce di un bambino.
- Papà, aiutam… - l’ultima parola si trasforma in un gorgoglìo.
- Aris, hai sentito? - dico ad un passo dal panico.
- Papà, ti pre… - torna quella voce sempre più disperata.
- Lì sotto c’è qualcuno, è un bambino! - urlo.
- Già, il figlio del militare. - dice Aris sospirando.
- Quale figlio? Quale militare? Di cosa stai parlando? - chiedo - Dobbiamo aiutarlo.
- Non possiamo fare nulla, purtroppo. Il bambino è caduto in questa apertura negli anni cinquanta, quando il castello veniva utilizzato come caserma.  A quanto pare era il figlio di un militare che, giocando, è stato letteralmente inghiottito dal castello. A nulla sono serviti i disperati tentativi di ritrovalo. Le acque dell’Idume, il  fiume sotterraneo che passa qui sotto, devono averlo trascinato chissà dove.
- Oddio!
- E ogni notte, a mezzanotte, il bambino lancia i suoi strazianti lamenti, nella vana speranza che qualcuno possa ancora salvarlo.
Guardo l’ora segnata sul display del mio telefono: mezzanotte in punto.
Con occhi umidi di commozione, torno a guardare la botola, poi, rivolto ai miei accompagnatori, dico - Per favore, andiamo via, ho bisogno d’aria.
Senza dire nulla, il custode si volta e comincia a camminare a ritroso. Arrivati finalmente all’ingresso principale, estrae la sua poderosa chiave, socchiude il portone e fa un passo indietro per farci passare.
- Signori, contrariamente alle nostre abitudini, abbiamo voluto condividere con voi le nostre storie perché siete due anime sensibili e rispettose. - dice con solennità appena siamo fuori - Non lo dimenticheremo, voi dimenticatevi di noi. - poi, senza darci il tempo di replicare, richiude lentamente il portone rimanendo all’interno del castello.
Aris ed io ci ritroviamo in piedi, immobili, con il legno antico a pochi centimetri dalle nostre facce, a provare ad elaborare le ultime parole del custode.
- Aris, chi era quell’uomo?
- Credo di averlo appena capito. - annuncia lui sorridendo - Il generale Tommaso Romano, commendatore di Terra d’Otranto. È stato seppellito nel castello a metà dell’ottocento. Un secolo dopo, quando il castello divenne una caserma, la cappella venne dismessa e la sua tomba demolita.
- Insomma, un’altra anima in pena che abita questo luogo.
- Esatto.
Senza troppi commenti, ognuno preda delle proprie emozioni, ci separiamo. Con un crescente senso di straniamento, mi immergo nel centro per fare ritorno al Caffè Letterario. Intorno a me, centinaia di turisti ammirano e fotografano ogni angolo di Lecce, beatamente ignari dei misteri che custodisce.
FINE