Nato il 22 febbraio del 1949 a Caprarica di Lecce, piccolo centro della provincia di Lecce, fu romanziere, poeta, pubblicista, editore, autore di drammi radiofonici, operatore culturale.
È, solitamente, intorno a queste figure che si creano grandi stagioni, fermenti. Verri ha rappresentato il punto cardine per la cultura salentina del suo tempo.
La difficoltà nel reperire le sue opere ne ha fatto un autore di nicchia. Aderì al Movimento Genetico di Francesco Saverio Dodaro, è riconducibile, assieme a Salvatore Toma, alla schiera dei poeti maledetti salentini, i poeti selvaggi.

La sua attività di editore precede quella di scrittore. È, infatti, nel 1977 che crea Caffè Greco (1977 – 1981). Dal 1982 al 1986 fonda e dirige Pensionante de’ Saraceni. Dal 1989 al 1992 l’impresa editoriale più folle; folle come l’idea di un uomo che vola. Come un novello Icaro, Verri, si lanciò nella creazione di un “Quotidiano dei Poeti”. Era una sfida. Dimostrare che, in un paese come l’Italia, era possibile pubblicare un quotidiano che fosse di sola poesia. Il quotidiano, altro non rappresentava, che le sue ali. Ali che non si sciolsero al sole, anzi. Doveva essere un’idea editoriale breve, quasi una dimostrazione di forza verso questo mondo che voleva fare della letteratura un business. Il profitto non era il fine della “creazione”, dell’ingegno. Ha preceduto la globalizzazione europea, anticipandone i caratteri. A Cursi istituì il “Fondo internazionale contemporaneo Pensionante de' Saraceni”, eccentrica biblioteca composta da oltre tremila volumi.

Non smentendo la sua vocazione di operatore culturale, di agitatore, organizzò due edizioni di una mostra mercato di poesia a cui diede il nome di “Al banco di Caffè Greco”.
Organizzò, inoltre,  due mostre: la prima su Joyce e Raymond Queneau, mentre la seconda sul gioco dello Scrap (gioco di scrittura attraverso l’uso di scarti tipografici).
Curò nel 1985 un dramma radiofonico alla Rai di Bari tratto dal suo primo romanzo, Il fabbricante d'armonia. Il suo primo libro, pubblicato nel 1983, Il pane sotto la neve, una raccolta di poesie, ripercorre l’io giovane del Verri poeta. Nel 1985 vede la luce il suo primo romanzo, Il Fabbricante di Armonia, ispirato alle vicende di Antonio Galateo.
È, invece, targato 1987, il suo romanzo postmoderno per eccellenza, La Betissa, nel quale lascia libero sfogo alla sua galoppante fantasia che si sbizzarrisce toccando punti estremi nell’evoluzione del linguaggio, nella ricerca linguistica, portando all’estremo il neologismo. Nel 1988, poi, esce I Trofei della Città di Guisnes e nel 1995 il postumo Bucherer l’orologiaio.
Morì il nove maggio del 1993 in un incidente stradale.

Antonio Verri, la condizione dell'essere

Credo che, Antonio Verri, abbia ricoperto più ruoli, come se non fosse una sola persona. Come se fosse una e mille persone.
Credo che, Antonio Verri, amasse sdoppiarsi, triplicarsi, moltiplicarsi, senza freno, in un pirandelliano gioco delle parti.
Credo che, Antonio Verri, fosse uno, nessuno e centomila.

Si muoveva, si agitava, con la mente, che non era mai ferma, ma, come ho già detto, era mossa da un’idea in movimento. Idea che, poi, era lui stesso.
Credo che la sua persona rappresentasse la sua stessa opera.
Come anche mi ha riferito Antonio Errico, nel corso dell’intervista che gli ho sottoposto, e come emerge continuamente dalla scrittura di Verri, Stefan era molto autobiografico. Il confine è labile, diceva Errico, fra autobiografia e finzione e Verri, in questo, è stato maestro.
Basti pensare allo sperimentalismo di “Bucherer l’orologiaio”, il libro uscito postumo, in cui la sua parola frana. Apparentemente non c’è significato.
Spazzando via la neve dal finestrino, l’apparente non senso svanisce, lasciando spazio ad un uomo che, dalla prima all’ultima pagina, cerca se stesso, attraverso i suoi personaggi, lui è Sally, lui è Bucherer, lui è tutti i suoi personaggi che sono Stefan.
Lui è Stefan e cerca se stesso non con la leggerezza del “Pane sotto la neve”, ma, come dice Antonio Errico in “Angeli Regolari”, con stanchezza.
Verri è stanco e ciò si riflette nella sua scrittura, nella sua ricerca, che si fa sempre più pesante, complessa e si maschera col nulla.
Forse, quasi un presagio:

«E noi fummo felici per questi nostri amici, che avevano organi in soprannumero e forse si cibavano con radici di giglio e forse erano in sintonia con luna e maree.
La loro bellezza? La loro bellezza è quando cominciano a marcire, a sfinirsi. La bellezza è quando per loro cominciano a parlar le rose…»

Forse è un presagio, come i ripetuti messaggi rivolti agli amici, come Aldo Bello faceva notare nella nota introduttiva di “Bucherer l’orologiaio”, presagi come questo: “Morirò fra tre anni…” e poi i sogni/incubi nei quali vedeva annunciata la sua morte.

Eppure è stato, Bucherer, l’ultimo capitolo di una ricerca; forse se stesso, più che del mondo in un libro, era ciò che gli interessava trovare.

Per Verri, la scrittura era diventata pesante, meno felice di un tempo, più oscura:

«Improvvisamente, Bucherer, con la mano a reggersi il petto squassato, quasi gridò: “Quest’ampio specchio è come fosse metà della mia voce.”»

Il motivo dello specchio che ritorna, e non si finge più lo specchio, perché così non trova più se stesso, è solo metà della sua voce, perché dentro si è fatto più pensante, oscuro, difficile da esplorare e nemmeno il ricorso allo specchio basta per scavare, scendere dentro sé, in quel corpo che era parole, parole in soprannumero, quel corpo che era testo magmatico, colmo di tante invenzioni.

In Bucherer risiede la condizione dell’essere, quell’essere finale, colmo di scrittura, di parole, che è stato Verri. Bucherer che usa mille materiali è Verri che usa infinite parole e Galateo che era Verri e viceversa ora sono Bucherer, ora sono Sally, ora sono infinite parole, quel caos che ha dentro e non riesce più a domare, a capire, perché non riesce più a scendere dentro sé.

«Chi sa guardare – aggiungeva Bucherer, ammiccando – si ferma al culmine del mescolare, poco prima della Forma…»

Non è un caso, a mio avviso, che la parola Forma abbia la lettera iniziale scritta in maiuscolo, quasi un messaggio che Verri ha voluto lasciare nel suo ultimo lavoro, un indizio per far cadere l’attenzione su quella frase e ciò che rappresenta e può rappresentare.

“Si ferma al culmine del mescolare, poco prima della Forma…” ed è questo che Verri fa con “Bucherer l’orologiaio”. È un libro scritto al culmine del mescolare, volutamente, Verri non gli concede la Forma, lasciandolo al caos e al non senso che genera nel lettore.

Francesco Aprile