Istanti in agonia, la pelle ha il potere di raccontare, a volte, l'ultimo scoccare di ogni ora, l'incedere malconcio dei nostri passi nella vita. Ogni delusione e lo sguardo che su di essa si getta, come fosse soltanto un altro passo in avanti, senza mordere, senza seguire più il tempo e le sue ragioni.
Ho questa sensazione, ma è solo il brivido delle parole, mi dico. A volte fingo di crederci per davvero, per poi rendermi conto che è così, e non ci sono, e non possono esserci, altre spiegazioni.
Le pagine hanno la capacità di sdoppiarsi triplicarsi moltiplicarsi, parole, come cani sciolti, raccontano e sono come un'esplosione al nostro interno. Pensare che tutto questo possa risultare solo dalla lettura. Nell'eleganza dei lessemi di Luciana Manco. Parole che ci prendono come in gabbia, non nascondono vie d'uscita, hanno il raro dono di essere potenziale e potenza, senza discussione alcuna, il dono di tramortire e assimilare il lettore.
Non esiste più una dimensione distaccata, differente, fra lettore e testo. Chi legge siede con le parole al suo fianco. L'incanto di svegliarsi e spogliarsi di sé, di noi. L'incanto di riversarsi sul foglio e scorgersi come parola.

«A trent'anni avrò parole staccate dalle tazze.
Un cappuccio di lettere storte da scordare sul treno.
E dire ancora: non è successo niente.
Quando niente sarà successo.»

Se tutto questo non fosse accaduto, come un sogno prima del risveglio. Ecco, è questa la malinconia propria di ogni parola, l'agonia di un sogno spezzato dal risveglio, il riacutizzarsi di un sintomo chiamato poesia, in un attimo, l'abbandono della vertigine, il disabituarsi al foglio bianco.

«Ora tu sei fallimento,
una stagione morta,
il declino del tempo,
il riflusso del canto,
l’armonia del fuoco spento.

Ora io sono il resto,
le calze sul pavimento,
l’appuntamento perso.
Il messaggero morto in viaggio.»

Poesia che sa di pelle e sangue, misto di sogni e sospiri di terra, che avvolge e spreme. Parole da vivere e non da leggere, ma da lasciarsi risucchiare, come le stesse parole sono un vortice che si risucchia da sé. Abolizione sistematica dei palpiti del cuore che si fanno onda che preme forte  su pelle e sogni, malinconie e cervello, passato e futuro in un limbo perpetuo di immaginifica creazione.
Poesia come impeto costante.
Ho perso il filo del discorso cercando e cercando ancora la mia forma fra le parole. Ho riscontrato la necessità di assolvermi come fossi un compito, l’obiettivo di una vita. Senza riuscirci, rifugiandomi nella costante lettura di parole, come quelle di Luciana Manco, che hanno il sapore nostalgico delle pagine di un calendario che, una volta voltate, non torneranno più a far capolino su di noi, se non per il loro ricordo.

«Io sono gesti scaduti.
Un pavimento d'orme.
Che nessuno preme più.
Conto in fogli le mie rinunce
che mi hanno resa alta.
Eppure da qui non archivio più ricordi.»

Il fallimento dei nostri occhi, il distacco dal ricordo come un lasciarsi cadere sul pavimento a mirare e rimirare il suono e la dolce compagnia delle parole. La capacità di leggersi come pagine di un libro, da strappare di volta in volta.

Luciana Manco, autrice leccese, nasce nel 1981. Diplomata presso l'Istituto Magistrale, lavora come promoter senza mai abbandonare la scrittura.
Vincitrice, nel 2006 del concorso Coriandoli, organizzato da Fonopoli e Fondazione Eni Enrico Mattei, ha pubblicato cinque poesie nell'antologia Radiografie di Lupo Editore, ed è presente nell'antologia "Il Sogno: Tra realtà e immaginazione" uscita per il V° concorso di Poesia "Giuseppe Longhi", è stata autrice per Paolo Benvegnù. Fa parte della redazione di una rivista musicale online, Losthighways.

Francesco Aprile