Minuziosità in movimento. L'elemento post primeggia. Un groviglio di suoni a gozzovigliare in un rapporto di strette dissonanze fra note. Musiche che arrivano dagli anni ‘80. L'impatto "Sonico" d'oltreoceano fra strumenti a simulare armonica melodia in contrasto, netto, con l'ermetico nascondersi delle parole che sibilano, come rumore di fondo, tutta la ricercatezza dei testi. Come a fare il verso al muro sonoro dei Jesus and Mary Chain. Suoni che risentono, prendono ed esportano, trasportano, manifestando assimilazione e consapevolezza, la lezione dei Sonic Youth riletta all'ombra dell'underground italiano di scuola Afterhours e Marlene Kuntz, in primis, in cui si legge, sempre, la presenza "Sonica" di strumenti tesi ad orizzonti diversi dalla regolarità metrica delle accademie italiane. Strizzando l’occhio ad un filone che non manca di richiamare alla mente echi lontani immersi, a tratti, nel repertorio dell’underground italiano come Giardini di Mirò, poi, guardando, magari, oltre. All’oltre di band come Mogwai ed affini. L'ascolto macina chilometri tesi all'irregolarità, figlia di un approccio musicale che si fa trasposizione di una condizione, apertamente svelata, in disaccordo con le "morali" sociali. Come un ronzio perenne di post sbronza, nel risveglio pesante di un non riconoscersi nella vita attorno.

L’Età del Ferro è il titolo dell’album dei Gualeve e, nel titolo stesso, si annoda, per poi schiudersi definitivamente per mezzo della musica, il contrasto fra vita e progresso, la difficoltà della prima ad adeguarsi al secondo, in una società che insegue, ancora, il predominio tecnico sulla natura figlio di elucubrazioni lontane nel tempo circa tre secoli. Quattordici tracce. Fra le quali il riadattamento di “Leggenda di Natale” di Fabrizio De Andrè. Prodotto da Gualeve e Fabio Magistrali, registrato e mixato da Fabio Magistrali, l’album ci pone, senza possibilità di fuga, davanti ad una realtà che si insinua come corpo estraneo fra le maglie della natura. L’età del ferro, appunto.

Francesco Aprile