
Mentre ascolto, o credo d'ascoltare, c'è un caminetto. Il legno brucia senza arrendersi realmente al uoco. Scricchiola, s'articola la sua voce. Dice - Sarò altro, sarò nuovo. Il fumo sgorga in articolati versi e spersi sentieri, s'accende ancora la fiamma, ancora fumo ancora e si stringono fumi e fumi che si alzano e sembrano seguire il verso, il tempo, di una voce che, lacera, non inciampa in minuti e secondi che inceppano e tentano, solo tentano, il ferimento del ritmo, del senso ch'è al di fuori dell'ascolto stesso e si metabolizza. Mentre attorno, ancora, fumi siglano parole di cenere sulle spalle e scende il senso, come sera, sulle strade stanche, eruttate fuori dal vento.
Ci sono momenti, situazioni, che portano ad incontri in cui l'ascolto sa farsi portatore di un peso, che è quello di una musica che si relaziona in un luogo che non è più quello preposto al semplice ascolto, ma è semenza che cresce e si lascia dietro segni, che sono orme di un passaggio che è la continuazione e il senso della musica stessa. È in questo spazio, in questo "segno" che s'alimenta «l'odore dei ricordi» mentre le distanze, fra immagini suoni e parole, crescono e decrescono con la stessa intensità del tempo che cambia. Ci sono momenti che ci portano davanti a persone in cui persona e musica si fanno inscindibili, pratica di una voce sofferta che trascina con sé le nebulose sociali che ci attanagliano e libera, per un attimo che nell'ascolto corre, ciò che ci appartiene e che il quotidiano ci scuce di dosso, fino a farci dimentichi di noi stessi. «Siamo diventati narcisi selvatici/abbiamo imparato a specchiarci/perché oltre il quadro non troviamo un muro/ma una sedia con una catena liberata», recita la voce di Ninfa Giannuzzi nella traccia, la prima, che dà il nome all'album. È in queste situazioni che si rafforza la sensazione per cui è impossibile scindere persona e musica, e si discostano, Ninfa Giannuzzi, Egidio Marullo e i musicisti che in questo disco li accompagnano, da quella dimensione tipicamente "social" che il momento storico pone in essere, disarticolando, fuoriuscendo da quella pratica contemporanea per cui a dire di sé è l'immagine profilo di facebook, svalutando il momento artistico, ridotto a mera rappresentazione d’inesistenza. È in questo contesto che la voce sofferta, lacera, graffiata, di Ninfa Giannuzzi è leitmotiv di un disco condotto con esperienza e fare artistico che bene si mescola con le atmosfere musicali che, di brano in brano, non risparmiano i ricordi e s’allacciano al tempo che passa, smuovendo sonorità ora floydiane ora alla Joplin, ora rock ora grunge e altro ancora, per un campionario emozionale sistematicamente attualizzato, relazionato all’epoca storica, mai datato, mai passato, ma che è sincronico ad un periodo indeterminato, consapevole di una propria maturità stilistica. C’è una voce che urla di sé. È nella consapevolezza di questi mezzi, nel mestiere dell’esperienza, che si presenta questo disco che è un disco vero, che spezza le solite catene, ora di moda, per cui è bello dire o sentirsi dire che non si è o non si appartiene al solito Salento da cartolina turistica, e si pone, conscio del suo spessore, al di fuori dei localismi da provincialità latente o manifesta che niente hanno a che a fare con l’aspetto artistico in quanto tale.
Francesco Aprile
2012-01-15