
La scena è quella di un taglio nello spazio temporale. Il concerto è un rituale antico serbato nell'incavo di uno scafo musicale che si nutre di noise e no wave, una trance rumoristica, ipnotica, catartica. Ripetizioni, suoni, rumori. La voce s'accosta al microfono ora in suoni, versi, vocalizzi, parole, e poi ancora suoni, versi, urla, l'afflato sillabico, sonoro, di una cadenza antica, vudù, che impasta parole e terra, urla e graffi e danze tribali attorno a feticci. Il palchetto dell'arci è un fuoco, un altare arcaico smembrato in suoni, frantumato nell'enfasi catartica dello strabordare di una rabbia punk o free noise, coi Dead C che s'agitano sullo sfondo, quasi evocati dall'imperversare rumoristico e selvaggio del duo Pedretti-Dorella. Una linea tribale, antica, è il percorso che tiene insieme le fila di una musica che s’agita fra le maglie di una incatalogabilità mai di facciata, e di cui gli OvO hanno fatto negli anni un marchio che contraddistingue la loro proposta per azzardo e visione di sguardo. Accenni metal, sfuriate punk e free noise, torsioni malefiche del cantato e una sezione ritmica martellante s’addensano, affollando la musica degli OvO di tutta una serie di riferimenti lontani fra loro, ma che resistono nell’amalgama di un tappeto sonoro imprevedibile, spiazzante per qualità della ricerca proposta e della capacità performativa.
Francesco Aprile