«Baldi vada fuori»: sesta e settima ora di chimica, un po' di fame, quella giovanile, un po' di stanchezza, un mio subitaneo sbadiglio, così repentino da non darmi il tempo, come educazione avrebbe voluto, di schermare la bocca dilatatasi a dismisura, e poi giusto di fronte alla prof., una donnina rossa piena di efelidi che parevano reagire chimicamente tra loro. Ebbene alla vista, suppongo, del mio impertinente velopendulo, manco le avessi esibito le pudenda, mi caccia fuori dall'aula, quasi due ore, reo di sbadiglio fraudolento. Eppure ero tra coloro (pochi) che nella sua materia andavano bene. Tanto che alla successiva università ne anteposi l'esame. Ma la punizione comminatami dalla docente fu superiore alla colpa. Andiamo indietro, alle elementari: le penne Bic avevano sostituito le penne a pennino che si intingevano nei calamai rabboccati dal solerte bidello con la caraffetta di inchiostro. Le Bic, immutate ancor oggi, se le svuoti dal refil diventano una mini cerbottana, uno scolaro fa presto ad accorgersene, e allora caricatosi di semi di eucalipto (le munizioni), numerosi nel giardino della scuola, la Bic consentiva di sparare i puntuti semini atti a provocare quel pizzicorino ai contubernali della classe. Una goduria. Il maestro se ne avvede, mi coglie non abbastanza lesto a nascondere «l'arma», viepiù, me la chiede, la Bic, è vuota, la prova provata del misfatto, 10 spalmate, 5 per mano, la verga picchia e brucia sul palmo, assai. Guardo con acredine il figlio del falegname che, per farsi bello, già il giorno dopo della richiesta del maestro, gli aveva portato due verghe rifinitegli dal padre e atte alla bisogna. Ma al fesso capitò pure a lui di assaggiare le spalmate. Nessuna solidarietà per lui. Si era scavato egli stesso la fossa. Stessa sorte, quel giorno, capitò a un bambino, il più alto della classe, ultraripetente, aveva già 13 anni, mani nodose e callose forgiate dall'aiutare il padre contadino, reagì all'impatto del bastone con un vago sorriso, di sfida, come dire: «non mi hai fatto niente, faccia di serpente», e allora il maestro indispettito raddoppiò la forza e il numero tanto da rompere il legnoso attrezzo punitivo, ma il figlio del villico, anche stavolta non batté ciglio, lui era un bonsai di Carnera. Altri metodi di punizione fisica adottati a seconda della colpa, e sempre alle elementari, erano la «campana», ovvero il suo batocchio, il maestro afferrava per le orecchie tra pollice ed indice la tenera cartilagine del discolo e, facilitato dal soldo di cacio della sua altezza lo sollevava e lo faceva oscillare come, appunto, il batocchio di una campana. Ancora. I calzoni lunghi erano livrea delle scuole medie, alle elementari erano corti, le rotule esposte e malleabili, se inginocchiato su una spasella (la cesta bassa per la frutta) contenente brecciolino, il pietrisco acuminato si faceva sentire, la genuflessione penitenziale minimo per un quarto d'ora. Incredibile a dirsi ma i nostri genitori, adusi anche loro, in famiglia, a percuotere i figli, avevano delegato i maestri ad usare i sovra descritti metodi coercitivi. Una pedagogia greve e affatto montessoriana prediligeva le botte come elemento efficace di formazione (sic!). La cronaca contemporanea, a parti invertite riporta insolenze (eufemismo) dei discenti versus i docenti. Gli insegnanti, visti un tempo come una sorta di timor di Dio, disattivati nell'autoritarismo, minati nell'autorità devono contare sull'autorevolezza, semmai riescono a dotarsene. Ma la violenza è sempre orba.
Botte da... orbo, ovvero: dietro ogni persona eccezionale c’è un insegnante eccezionale (di anonimo)
- Giuseppe Pascali
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