Chi non ha sognato almeno per una volta di andarsene su un altro pianeta”. Sussurra Antonio che si accinge a vivere la sua ultima notte. Ora il paradiso ha lasciato il posto all’inferno e la sua anima si illumina di una fioca luce esistenzialista. Antonio “inizia a pensare a pensieri a cui non deve pensare”. Lui vorrebbe tanto parlare al suo cervello, prova e riprova ma non sa come fare, allora rassegnato si rivolge alla donna che le sta accanto nelle ultime ore di vita e le dice: “Soffiale dentro le parole perché qualcuna attecchirà e allora il cervello mi ricrescerà”.
Paola Leone che con i detenuti della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce ci lavora ormai da tre anni sa bene cosa significa “soffiare le parole al cervello” e lo ha fatto rivolgendosi ai ragazzi che hanno preso parte al laboratorio/percorso teatrale “Io ci provo” seminando in loro germogli di speranza e ponendo in essi la fiducia. Un’aspettativa che difficilmente i giovani tradiranno perché è bastato ascoltarli e guardare i loro volti, per capire come la possibilità che gli è stata offerta, quella di mettersi in gioco imparando l’arte teatrale, non è stata vana.
Ieri pomeriggio, i cancelli dell’istituto penitenziario, eccezionalmente sono stati aperti  agli organi di stampa e insieme ad altri giornalisti ho potuto assistere allo spettacolo “L’ultima notte di Antonio”, atto unico tragicomico, messo in scena dai bravissimi attori Mariano Dammacco e Serena Balivo.
Ad accoglierci c’erano i ragazzi della compagnia nata all’interno del carcere e diretta da Paola Leone che con una straordinaria forza d’animo è riuscita a gestire impeccabilmente la situazione anche quando il teatro si è riempito, i detenuti prendevano posto e si era creato un chiacchierio interessante. Li ho guardati incuriosita, scrutavo ogni movimento. Alcuni sembravano imbarazzati, altri non nascondevano la propria euforia.
Le luci in sala si spengono, i fari illuminano il palco. Un silenzio assordante interrotto poi dalla musica e dalla voce di Antonio (interpretato da Mariano Dammacco) fanno intuire che lo spettacolo è iniziato. Entra una donna, Serena Balivo, che con i suoi strani movimenti rende l’idea di una figura surreale, quasi grottesca, per meglio dare l’impressione di un distacco dalla realtà. L’attenzione è alta e lo spettacolo è davvero interessante così come le domande che al termine della rappresentazione, i detenuti rivolgono ai due attori.
Gli chiedono se la storia di Antonio sia realmente accaduta e perché termina in modo negativo. Nulla è stato inventato, spiega Dammacco, la storia è il frutto di molti incontri e di numerose letture, sono tanti pezzi di vita assemblati come in un collage. Far finire male un racconto non significa aver perso la speranza, ma dare la possibilità ad ogni spettatore di ritrovare la propria capacità di risalire.
E per far sì che questo accada occorre provarci, mettersi in gioco, lavorare su se stessi, svelare qualità che non si pensava di possedere. Solo così l’essere umano può scoprire il piacere della libertà, non effimera come quella che molti si illudono di avere solo perchè vivono fuori dalle sbarre, ma quella che si percepisce quando si avverte di avere la forza per non ripetere gli stessi errori potendo vivere la vita a testa alta e a schiena dritta … proprio come fa un attore pochi istanti prima di andare in scena.

di Paola Bisconti